Elena Ferrante – La frantumaglia

La voce dell’io profondo

recensione di Giulia Zagrebelsky

dal numero di dicembre 2016

Elena Ferrante
LA FRANTUMAGLIA
pp. 373, € 19
Edizioni e/o, Roma 2016

ferranteMolte questioni sono state sollevate intorno al «fenomeno Ferrante». Quella più interessante non è tanto la dibattuta querelle se un autore abbia diritto o meno all’anonimato, quanto quella legata all’interpretazione dei suoi testi. Dovremmo chiederci, infatti, quanto la conoscenza della vita di un autore possa incidere sulla comprensione della sua opera e se tale conoscenza possa essere d’aiuto al lettore o, piuttosto, d’intralcio. Certo, può essere utile per storicizzare le opere di Ferrante conoscere alcune coordinate, ad esempio quelle spazio-temporali che collocano la nascita della scrittrice a Napoli intorno alla metà del XX secolo. E venire a conoscenza di alcuni nodi cruciali della sua vita potrebbe anche favorire una certa interpretazione sia dei suoi primi romanzi intimistici sia della tetralogia.
Colmare in parte questo vuoto si può leggendo La frantumaglia, libro anch’esso dall’identità incerta, collocabile sulla linea di confine che separa un testo di carattere autobiografico da un’opera di critica letteraria. La terza edizione, ampliata con nuove interviste rilasciate tra il 2011 e il 2016 (le due precedenti sono uscite nel 2003 e nel 2007), è quasi un grido di rabbia e frustrazione: cessate di indagare sul mio «io sociale», ciò che vi serve sapere sull’«io profondo» dello scrittore, che è quello che conta davvero, sta tutto lì, basta che leggiate La frantumaglia.

Carte, tessere e lettere

A sostegno del patto autobiografico stipulato tra autrice e lettori, stanno i tre titoli delle sezioni cronologiche di quest’ultima edizione – Carte. 1991-2003, Tessere. 2003-2007, Lettere. 2011-2016 – che rimandano a un tipo di scrittura privata ma anche dialogica. La frantumaglia sembrerebbe essere l’unica opera a carattere autobiografico tra quelle pubblicate da Ferrante. In essa vengono affrontati i temi sentiti come più urgenti, in particolare la necessità vitale di sottrarsi all’arena pubblica, l’universo femminile, il rapporto complesso con la figura materna e con Napoli, il ruolo fondamentale della scrittura. Questi, però, sono proprio i temi che ricorrono nelle sue opere di finzione, dalla forte componente autobiografica, inverando le parole di Elisabeth Strout nel suo ultimo romanzo Mi chiamo Lucy Barton: «Ciascuno di voi ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola».

Molte storie, una sola storia, dunque; più parti, una unità. Il titolo stesso, La frantumaglia, rimanda a un’eterogeneità di frammenti dell’io e il suo carattere autobiografico testimonia al tempo stesso la necessità dell’autrice di ricomporsi nella propria unità. Se badiamo alla forma, invece, il termine «frantumaglia» può alludere all’eterogeneità dei contributi che compongono questo volume, dove troviamo per la più parte carteggi: con registi (Mario Martone e Roberto Faenza), scrittori (Goffredo Fofi, Paolo Di Stefano e Nicola Lagioia), giornalisti italiani e stranieri, i due editori Sandra Ozzola e Sandro Ferri, i lettori. La forma privilegiata dei tasselli che compongono il mosaico della Frantumaglia è, dunque, il dialogo, spesso strutturato in forma di intervista, dove i pensieri dell’uno contribuiscono a far nascere i pensieri dell’altro. Possiamo pertanto dire che La frantumaglia descrive la maieutica dell’autrice, la sua ricerca, attraverso il confronto con l’alterità, della verità del proprio «io profondo». La riflessione su se stessa in quanto autrice implica allora la riflessione sulla propria opera, ed è qui che si innesta l’altro aspetto della Frantumaglia, ovvero la sua natura saggistica e critica.

Interprete di se stessa

La peculiarità davanti alla quale ci troviamo è lampante: Elena Ferrante si fa interprete dei suoi stessi romanzi, sviscerando i temi principali della sua poetica. Se letta in modo univoco come opera critica, però, La frantumaglia non contribuisce a una maggiore comprensione delle opere di finzione in quanto non aggiunge nulla di più di quanto già emerga dalla narrazione. La distanza necessaria tra l’interprete – Elena Ferrante – e ciò che è interpretato – la materia dei romanzi – è ridotta al minimo. Inoltre, la libertà autobiografica garantita dall’uso dello pseudonimo si traduce in una maggiore presenza di verità nelle sue opere. La loro forza, infatti, risiede in buona parte nella coincidenza tra il senso che esprimono e l’intenzione dell’autrice. Le parole contenute nelle interviste, perciò, poco aggiungono a quanto narrato altrove.
Forse, allora, La frantumaglia potrebbe essere letta come un’ulteriore declinazione di quell’unica storia di cui parla Elisabeth Strout. Questo «libro che accompagna altri libri» non fa più solo da cornice, ma procede al loro fianco e trova il proprio spazio in mezzo a loro.

giulia.zagrebelsky@gmail.com

G Zagrebelsky è laureata in letteratura all’Università di Torino