Una nuova generazione di amministratori penitenziari
di Elisabetta Grande
dal numero di luglio-agosto 2016
Ci volevano le umilianti condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2009 (Sulejmanovic) e del 2013 (Torreggiani) perché in Italia si riaprisse un dibattito che sembrava ormai destinato a essere sepolto dai dilaganti e retrivi sentimenti di insicurezza e vendetta collettivi, alimentati giorno dopo giorno da politici e mass media alla ricerca di una comunicazione di pancia con i propri interlocutori.
Si tratta del dibattito intorno alla pena detentiva, alla sua utilità, alla sua crudeltà, alla sua disumanità, al senso ultimo del suo persistere come sanzione penale a distanza di due secoli dalla sua nascita. Non è forse il carcere, con il suo insopportabile carico di sofferenza fisica e psicologica (per chi sta dentro e per chi sta fuori, per chi è stato condannato e per coloro che gli o le vogliono bene) una pena ormai obsoleta? È ancora possibile immaginare un carcere capace di rieducare, che al momento del fine pena sappia restituire alla società una persona migliore, o almeno non peggiore, di quella che vi aveva fatto ingresso? Oppure al contrario la rieducazione carceraria è un puro ossimoro (“nothing works” osservava già nel 1974 Robert Martinson, in What Works: Questions and Answers About Prison Reform, “Public Interest” n. 35 ), buono solo a lavare le coscienze di chi non voglia vedere come le prigioni siano vere e proprie discariche sociali, in cui viene sottoposto a pena chi è già penalizzato dalla vita, la cui “rieducazione” potrebbe dunque passare – a monte – solo attraverso un miglioramento delle sue condizioni economiche, sociali (e quindi psicologiche) di cui viceversa lo stato si fa sempre meno carico (secondo l’ormai noto passaggio dallo stato sociale allo stato penale, su cui Loïc Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, 2000)? È possibile, invece, che il progressivo sentimento di paura collettivo renda la nostra società liquida, incapace ormai di coesione sociale e quindi di empatia e di riconoscimento del e nell’altro, irrimediabilmente desiderosa di una prigione la cui cifra sia proprio il degrado e la sofferenza psichica e fisica dei detenuti, al di là di ogni costo collettivo e di ogni limite etico? La ricerca di una pena che non sia lesiva della dignità umana dovrebbe allora cedere il passo alla brutalità di una repressione figlia della sindrome securitaria? E, poi, esiste davvero qualcosa di meglio del carcere?
Una ritrovata discussione sulla pena detentiva
Sono questi i termini di una finalmente ritrovata discussione sulla pena detentiva, innescata dalle decisioni della Corte di Strasburgo, che per ben due volte ha condannato l’Italia per aver trattato in maniera inumana e degradante gli uomini e le donne ristretti nelle sue carceri. È la riapertura di un filone di pensieri al contempo insperata e produttiva di risultati. Insperata perché il trend della carcerazione di massa, novella espressione di un diritto delle pene al servizio del capitale privato (su cui già Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al gulag, Elèuthera, 1996), che negli ultimi due decenni si è affermata con forza anche in Europa (portando per esempio il numero dei detenuti italiani dai 29.000 del 1990 ai quasi 68.000 del 2010), sembrava aver eliminato alla radice ogni possibilità di critica al carcere, quale valido e unico strumento di pena. Produttiva perché, combinata con una crisi economica che toglie spazio al trasferimento di denaro dalle tasche dei contribuenti a quelle dei privati che col carcere fanno affari, ha dato luogo in Italia a una stagione di riforme che hanno consentito non solo di invertire la rotta dell’aumento del numero dei detenuti, ma anche di tornare a immaginare che possa esistere qualcosa di meglio del carcere o almeno qualcosa di meglio del carcere così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi in Italia. La convocazione dei cosiddetti stati generali dell’esecuzione penale, voluta dal ministro Orlando, che ha di recente coinvolto tutti gli operatori del sistema in una proposta per la prima volta polifona di cambiamento dell’ordinamento penitenziario, ne costituisce una prova.
Il tema del carcere in Italia
Si tratta della vittoria del diritto sulla politica, del sentimento di umanità sul degrado morale dettato dall’egoismo della paura? È certamente esagerato e prematuro sostenerlo, purtuttavia qualcosa si muove e i tre libri di cui si vuole in questa sede dare conto testimoniano, ciascuno a modo proprio, il rinnovato spirito con cui dopo le condanne di Strasburgo ci si avvicina in Italia al tema del carcere, ma anche i fallimenti di ogni tentativo di riforma della pena detentiva e le enormi difficoltà che un vero cambiamento di rotta comporta. Sono voci molto diverse fra loro, rappresentative di sensibilità e prospettive differenti, perché diversi sono i ruoli giocati dentro e fuori dal carcere da chi ce ne parla. Dopo Strasburgo, è questa la vera novità, la chiave di lettura della pena non può più prescindere dal concetto di dignità della persona, che rappresenta il limite invalicabile di ogni reazione dello stato nei confronti di chi viola le sue regole. La dignità è però un concetto ambiguo, che ben si presta a essere svuotato di sostanza se non se ne fa valere una nozione rigida, che lo faccia coincidere con un nucleo di diritti incomprimibili e mai negoziabili.
L’individuazione di quei diritti è proprio ciò che si propone di fare Pietro Buffa, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria in Emilia Romagna fino al gennaio 2016 e oggi direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel suo libro dal titolo significativamente programmatico Umanizzare il carcere. Pietro Buffa, così come i direttori del Dap che recentemente si sono avvicendati in quella carica, incarna la visione illuminata di una nuova generazione di amministratori delle pene, consapevoli che il carcere è strutturalmente un luogo di violenza, di conflitti, di sofferenza e di diminuzione di status, purtuttavia non rassegnati a governarlo seguendo un’idea di ineluttabile irriformabilità. La riforma possibile viene dal basso, ci dice Buffa, da un lavoro quotidiano di trasformazione di un contesto, che significativamente egli paragona a un contesto di guerra, in cui si realizza quella “crudele metamorfosi” che il famoso esperimento di Philip Zimbardo aveva già portato drammaticamente alla luce nel 1971. Studenti di Stanford, ragazzi per bene, sensibili ed educati, diventati in un gioco sperimentale alcuni guardie e altri detenuti, si erano di colpo tramutati in nemici e, immedesimandosi nel nuovo ruolo sociale, gli studenti-guardie non avevano potuto fare a meno di usare metodi arbitrari e violenti nei confronti dei loro compagni, che ormai percepivano come detenuti. La realtà carceraria è necessariamente conflittuale, ma un approccio più dialogante che prospetti un nuovo modo di relazionarsi con il nemico, nell’ottica di Buffa, può aspirare a sradicare quei meccanismi di anestetizzazione alla sofferenza altrui che portano alla sua normalizzazione. Si tratta di mettere in atto dei piccoli accorgimenti capillari, di attenzione e di ascolto per i bisogni quotidiani, tanto dei detenuti che delle guardie carcerarie, che allenti le tensioni e gli odi che si generano nei contesti chiusi. L’elenco che Buffa propone è lungo, ma le molte piccole rivoluzioni di banali modalità gestionali del carcere da lui indicate possono senz’altro determinare un’enorme trasformazione della qualità della vita di ciascuno e in definitiva un grande cambiamento culturale nella percezione del proprio ruolo rispetto all’altro.
È questa la via per una concreta umanizzazione del carcere, che al di là degli enunciati di astratti principi di dignità da rispettare o di rieducazione da effettuare, sappia per esempio farsi carico di abolire le “domandine” che i detenuti debbono compilare per ogni loro necessità e che, per quanto impellente essa sia, non prevedono un termine di risposta. O consenta ai detenuti e ai loro familiari di parlarsi di più delle attualmente concesse quattro volte al mese, o di intrattenere rapporti sessuali con i partners, o permetta ai poliziotti penitenziari di alleviare il fardello emotivo che portano sulle spalle attraverso incontri a ciò mirati o ancora affidi loro una maggiore partecipazione nelle scelte gestionali. Da un lato il superamento dell’infantilizzazione del detenuto, portato di un’idea di rieducazione che ha finito per fare dei diritti uno strumento di premialità da accordare solo se meritato, dall’altro la responsabilizzazione degli agenti in relazione a un progetto maggiormente condiviso, porterebbero, infatti, del tutto naturalmente a un abbattimento della carica di tensione che produce violenza. Sono trasformazioni che dopo le condanne di Strasburgo hanno cominciato piano piano a essere discusse e implementate. Si pensi alla sorveglianza dinamica, ossia alle celle aperte, imposta da più di una circolare del Dap, o alle cosiddette stanze dell’amore che dovrebbero finalmente vedere la luce anche nelle prigioni italiane.
Sarà tutto ciò sufficiente a restituire un senso alla pena detentiva e dignità ai ristretti? Le pagine strazianti del bel libro di Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto Gli ergastolani senza scampo. in cui il primo condannato all’ergastolo ostativo (ossia a una pena detentiva perpetua, cui si può ovviare solo “scambiando la propria libertà con quella degli altri”, ossia collaborando utilmente con la giustizia), racconta la sua lenta agonia dietro le sbarre, ci fanno propendere per una risposta negativa. L’urlo della sua sofferenza, pur ritenuta compatibile con il rispetto della dignità umana dalla nostra corte costituzionale, ci riporta alla mobilità dei confini di quel concetto e alla disillusione circa la possibilità che esso sia in grado di costituire davvero la via di uscita dalla disumanità del carcere. Né i segnali di una “resipiscenza legislativa”, registrati da Andrea Pugiotto nel decreto legge a modifica dell’ergastolo ostativo, scritto a ridosso della sentenza Torreggiani, ci possono dare maggior fiducia sul punto.
Ma esiste qualcosa di meglio del carcere? La risposta positiva proviene dal lavoro a cura di Grazia Mannozzi e Giovanni Angelo Lodigiani Giustizia riparativa, che, nel raccogliere le riflessioni del mondo (non solo) accademico, indicano la strada della giustizia riparativa quale valida alternativa a una giustizia retributiva e al suo carico di desiderio di vendetta. Mediazione penale, ricostruzione dei legami fra vittima e reo, scardinamento dell’idea di pena come raddoppio del male e ricomposizione del tessuto sociale costituiscono il nuovo linguaggio di un filone di pensiero che all’esclusione in carcere del reo sostituisce la sua inclusione sociale accompagnata dal riconoscimento della persona offesa. È la giustizia tipica delle società a potere diffuso, che a una impossibile imposizione di una sanzione dall’alto sostituisce la ricomposizione dei rapporti fra gruppi dal basso. Anche in questo caso Torreggiani ha funzionato da spartiacque e nel 2014 il legislatore italiano ha aperto qualche porta in più alla mediazione penale e alle sue alternative al carcere. Siamo dunque sulla buona strada? È presto per dirlo, ma certamente qualcosa si muove.
elisabetta.grande@uniupo.it
E Grande insegna sistemi giuridici comparati all’Università del Piemonte Orientale