Ma chi me l’ha fatto fare?
di Luca Simonetti
dal numero di maggio 2016
Nell’ambito dell’alimentazione e più in generale della produzione del cibo, è facile imbattersi in libri autobiografici, in prima persona. Ma l’autobiografismo può svolgere ruoli molto diversi: può servire a chiarire il tema in discussione, grazie al pathos e alla concretezza dell’esperienza individuale, ma può anche finire per oscurarlo, quando la trattazione è meramente ombelicale. I tre libri qui in esame sono eccellenti esempi di questi due diversi esiti della forma autobiografica.
Enrico Brizzi cerca di rispondere a alcune domande comuni (che cosa vuol dire essere vegani? che cosa comporta nella vita quotidiana?), raccontando la storia del suo rapporto con la moglie Claudia – la vegana del titolo – dal corteggiamento fino alla nascita della loro figlia (Ho sposato una vegana, pp. 127, € 12,50, Einaudi, Torino 2016). Il problema però è che Brizzi non ha chiaro in mente lo scopo che vuole ottenere, e così oscilla continuamente tra l’autocommiserazione (ma chi me l’ha fatto fare?), l’ammiccamento al lettore (guardate in che situazione mi ha messo questa matta!), la narrazione di un percorso individuale di guarigione o addirittura il Bildungsroman. Infatti Brizzi (o almeno, il Brizzi-narratore) ha finito per condividere le convinzioni della moglie, che non si limita al veganesimo, ma nutre tutta una serie di altre “opinioni” sull’universo mondo, che definire poco serie sarebbe eufemistico: l’apparato digerente degli esseri umani è erbivoro, non possiamo digerire la carne; l’olio di palma fa male; il cacao industriale è un veleno; la frutta va consumata prima dei pasti; lo zucchero è un veleno; l’erba di grano va brucata direttamente dal vaso; bisogna usare solo pane a lievitazione naturale; il parquet è tossico e trattato in modo da “rilasciare sostanze volatili nocive al nostro organismo”; dopo la doccia non bisogna asciugarsi; il wifi produce danni cerebrali e il microonde è cancerogeno; le aspirine fanno male, e quanto agli antibiotici vanno fatti in casa con aglio e limone; e così via. L’approccio del Brizzi-narratore alla questione è di disarmante banalità (se tanta gente intelligente e di successo, da Leonardo da Vinci e Einstein a Terence Hill e Brad Pitt, ha scelto di essere vegana, “un perché ci sarà”); e in effetti le sue uniche perplessità non vanno tanto alla sostanza del veganesimo (che sarebbe una “missione giusta, condivisibile, socialmente ed economicamente vincente”), quanto a una eccessiva aggressività nei metodi di propaganda, laddove invece sarebbe sufficiente che i vantaggi connessi alla dieta vegana si affermassero da sé, con la mera forza dell’esempio. Il Brizzi-narratore (chissà quello vero) non è mai sfiorato dal dubbio che il veganesimo della moglie – non, diciamolo subito a scanso di equivoci, il veganesimo tout court – sia a sua volta una religione, una ideologia reazionaria, antiscientifica, intollerante e arbitraria. Così il libro si riduce ad una raccolta di aneddoti, alcuni divertenti (i primi soprattutto) e altri che vorrebbero esserlo ma risultano solo imbarazzanti (Claudia che chiede a Fausto le analisi del sangue prima di andarci a letto, che scaccia il gatto che cerca di mangiare la lucertola, o che semina lo scompiglio in teatro durante una serata di Supermagic), e non riesce né a convincere, né a informare, né a divertire.
Il libro di Novella Carpenter (Farm City. L’educazione di una contadina urbana, ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di John Irving, pp. 349, € 14,50, Slow Food Editore, Bra 2015) è la storia dell’autrice, una “contadina urbana”, una cittadina cioè che si ingegna a trasformare piccoli appezzamenti abbandonati in orti e allevamenti. Nonostante alcune strane amnesie (il libro, peraltro zeppo di dettagli, omette di dirci quali siano i lavori part time che consentono alla protagonista e al suo compagno di sopravvivere), la prima parte, che racconta il trasloco dell’autrice da Seattle a una zona periferica e decaduta di Oakland in California, il suo ambientamento, i rapporti con i vicini, è divertente e istruttiva. Peccato però che insensibilmente il libro si trasformi in un manuale di how-to: come trasformare un parcheggio dismesso in un orto, come costruire gabbie per polli e conigli, come allevare uccelli e maiali, come uccidere gli animali, eccetera (senza ovviamente trascurare le ricette), il che magari potrebbe anche interessare poco il pubblico generalista. Inoltre, per quanto non si possa accusare l’autrice di prendersi troppo sul serio (e infatti sa raccontare con humor i suoi dubbi, i suoi scacchi, i suoi imbarazzi di piccoloborghese declassata, come quando col compagno va nottetempo a svaligiare i cassonetti per recuperare cibo per gli animali), quel che lascia perplessi è il fatto che le scelte decisive dell’autrice non siano minimamente spiegate. Così non sappiamo perché Carpenter abbia deciso di dedicarsi all’urban farming, perché si sia data all’allevamento urbano, perché attribuisca tutta questa importanza al saper uccidere da sé gli animali di cui cibarsi, e infine perché abbia deciso, per un mese, di nutrirsi solo con i prodotti della sua fattoria urbana: tutto viene dato per scontato. In questo modo il libro riesce, nel complesso, enigmatico, il che limita molto il suo potere di convincere chi già non condividesse le tesi dell’autrice.
Anche il libro di Antonio Leotti (Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore, pp. 134, € 12, Laterza, Roma-Bari 2016) è autobiografico, incentrato com’è sul punto di vista peculiare di un agricoltore, che lavora anche nel mondo del cinema e si trova a gestire l’azienda agricola di famiglia. A differenza degli altri due testi, però, quello di Leotti non è il racconto di una conversione individuale. Non che manchino i cambiamenti di opinione anche abbastanza radicali (ad esempio, in materia di politica), ma in genere Leotti si concentra non tanto su se stesso e sulle proprie scelte, quanto sull’evoluzione del costume e della cultura italiana. Il ricorso alla dimensione autobiografica, perciò, viene usato per illustrare più concretamente un problema generale. Ad esempio, è illuminante l’excursus iniziale sul cambiamento nel modo di percepire l’agricoltura (da attività arretrata e sfigata riservata a esseri subumani – “gente poca, contadini tanti” – a vera e propria moda, assieme alla contestuale affermazione del modello immaginario di agricoltura da “Mulino Bianco”, su cui Leotti scrive pagine gustose). Come pure è incisiva la descrizione del dominio del Pci prima e del Pd poi in Toscana, dal punto di vista sia dell’agricoltura sia della politica urbanistico-paesaggistica (con gli innumerevoli e spesso insensati lacci e lacciuoli imposti all’iniziativa privata, ma che poi non riescono a tutelare il paesaggio dagli scempi operati dalla mano pubblica), e della politica culturale in genere (a questo riguardo, oltre alle spiritose considerazioni sul proliferare di sagre e festival tutti uguali, piace segnalare l’episodio della proposta, poi grottescamente abortita, di diventare assessore alla Cultura). In generale, l’autore contesta la visione oggi prevalente in Italia, di tutela perlopiù museale o imbalsamatoria del territorio e del paesaggio (come se le bellezze paesaggistiche italiane non siano il frutto dell’attività umana, e come se il paesaggio non sia necessariamente in continuo mutamento, proprio perché vivo), che nega ogni cambiamento e quindi anche ogni progresso. E infatti il tema principale del libro è proprio la critica della cultura antiscientifica e antiprogressista italiana, che idealizza il passato e le tradizioni, ignorandone però gli aspetti negativi. Proprio in virtù di questa insolita lucidità, Leotti si distingue (in meglio) dai numerosissimi saggi che, negli ultimi decenni, si sono chiesti con pensosità forse non sempre accompagnata da vero pensiero che cosa sia oggi e che fine abbia fatto la sinistra in Italia. Leotti un’idea ce l’ha: che la sinistra, oggi, come sempre del resto, consista nella fiducia nella ragione, nella capacità di condividere (responsabilmente: infatti, per l’autore, la differenza fra la politica vera e le chiacchiere da bar consiste nell’assumersi la responsabilità delle proprie scelte) un progetto di progresso civile, economico e culturale, che non può e non deve accompagnarsi alla diffidenza verso la scienza e la cultura (diffidenza di cui è espressione il “sapere nostalgico” denunciato, fra gli altri, da Antonio Pascale), o peggio ancora alla fissazione per la “purezza”, ahimé così caratteristiche della “sinistra” attuale.
l.simonetti@splex.com
L Simonetti è saggista