Alan D. Altieri, in ricordo

Il 16 giugno 2017, un anno fa, moriva improvvisamente a soli sessantacinque anni Sergio (“Alan D.”) Altieri, scrittore, sceneggiatore e traduttore (George R. R. Martin, per dire), nome illustre della narrativa di azione e del fantastico e leggendario operatore editoriale, la cui storia ha attraversato quella delle grandi case. Mondadori, Feltrinelli, Longanesi, Corbaccio, TEA…

In occasione di una manifestazione recente a Torino sui linguaggi del fantastico, la Festa delle Ombre Lunghe (8-10 giugno), due suoi amici – amici veri –, gli scrittori Danilo Arona e Alessandro Defilippi, hanno lasciato ricordi di Altieri. Che dicono parecchio dell’uomo, della sua storia, ma anche di reti di rapporti che per nostra fortuna esistono. 

Alessandro Defilippi:

Quando ci incontravamo lo chiamavo Sergio, ma nel mio ricordo resta Alan o meglio il Lupo. Anche io come molti scoprii i suoi libri tra gli anni ’80 e i ‘90. Città di ombre e Città oscura mi parvero un modo nuovo e intenso di vedere le cose e la scrittura. Nel mio immaginario andarono a porsi in cima, lassù, vicino a Blade Runner. Un mondo cupo e scuro, dove gli eroi avevano ancora posto. Eroi feriti, giusti, infinitamente malinconici e romantici nel loro apparente cinismo. Come ferito, giusto, malinconico e romantico era il mio amico Sergio.

Come molti dei suoi fan – e io ero e sono un fan entusiasta – desideravo conoscerlo. E un giorno capitò l’occasione. Era il 2006: l’amico Danilo Arona aveva organizzato una serie di presentazioni ad Alessandria e mi invitò a presentarne una. Quando scorsi la lista degli autori che sarebbero stati presenti, scopri che c’era anche lui, Alan D., dove la D stava per Diego, come scoprii poi. Così chiamai Danilo e gli chiesi il favore di poterlo presentare io. Fu così che andò: lo conobbi nel retrobottega dell’erboristeria di Danilo. Non lo avevo mai visto in fotografia, ma era esattamente come mi aspettavo che fosse: un pirata, un contractor, una figura che riempiva lo spazio. Una presenza. Un uomo, come poi scoprii, di infinita gentilezza e generosità. Ci piacemmo e iniziammo a incontrarci, ad annusarci, finendo per essere profondamente amici o meglio fratelli di sangue come ci piaceva dire. Contavo molto su di lui, come spero lui abbia contato su di me. Quando ero in difficoltà con un mio libro, lo chiamavo, e pochi giorni dopo lui arrivava da Milano, sulla sua Toyota Celica nera, da cui si sfilava emergendone come una roccia. Io dicevo che sentivo quando stava per arrivare: sentivo gli zoccoli della cavalleria avvicinarsi e sapevo che il mio libro avrebbe ripreso vita. Ha fatto molto per me, anche sul piano editoriale, come per molti altri. Gli eretici, come ci chiamava. Quelli che ora si sentono più soli e lo ricordano.

Ho l’illusione di aver condiviso con lui la mia famiglia: veniva a pranzo da noi, rideva con la sua voce bassa e grossa, raccontava storie terribili e folgoranti. Adorato da mio figlio e da mia moglie, che gli preparava sempre una doggy bag con ciò che restava del pranzo e si raccomandava di avvisare all’arrivo a Milano.

Adorato, ho detto, ed è vero, perché era impossibile non voler bene a Sergio, uno degli uomini più generosi e leali che abbia mai conosciuto. Non voglio parlare di quel che ho provato quando ho saputo della sua morte. È una cosa tra me e lui. Non ho voluto andare al suo funerale. Così posso sempre aspettarmi di sentirmi chiamare da quella voce grossa e profonda: “Ehi, Alex, bro!”.


Danilo Arona:

Nell’estate del ’98 conobbi Sergio Altieri di persona. Come autore lo conoscevo sin dagli anni ’80 quando un libro dal titolo Città oscura mi conquistò, perfetto equivalente letterario del noir metropolitano, screziato di fantastico e horror, del miglior Carpenter, quello di 1997 Fuga da New York e Distretto 13 le brigate della morte. Da quel momento non mi feci mancare nulla di Sergio e i successivi Alla fine della notte, L’occhio sotterraneo, Corridore nella pioggia, Scarecrow mi confermarono che quello scrittore stava diventando un mito personale perché dava corpo con una prosa secca e paradossalmente musicale ad alcuni tormentoni del mio immaginario che con evidenza erano tali anche per lui.

Nel ’98 si era  alla seconda edizione del festival letterario Chiaroscuro, ricca di ospiti internazionali che arrivavano ad Asti un po’ da tutto il mondo: personaggi come Jerome Charyn, Daniel Chavarria, Luis Sepulveda, Paco Ignacio Taibo II, Donald E. Westlake, e tra gli italiani, Bruno Arpaia, Marco Buticchi, Enrico Deaglio, Ivan Della Mea, Gianni Minà e Laura Grimaldi. E appunto Sergio, presentato nel cartellone con il suo nome “da scrittore”: Alan D.

Mi aggiravo appunto un pomeriggio in attesa di un evento per la via antistante la Biblioteca Consortile quando, accompagnato da Laura Grimaldi, mi si avvicinò un uomo alto e ben piantato, folti baffi, che con voce baritonale mi fece un affondo indimenticabile: “Ciao, sono Sergio Altieri, vorrei conoscerti, ammiro molto il tuo lavoro”.

Adesso una pausa e una precisazione: è impossibile per me raccontare di Sergio senza divenire autoreferenziale. Lo è per me come per molti altri che lo hanno conosciuto. Quindi corro il rischio e respingo al mittente le accuse – non dette, ma in silenzio formulate – di mettere il proprio io al centro di un “coccodrillo”. Non è proprio il mio caso perché l’improvvisa morte di Sergio, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 giugno 2017 mi ha travolto come un TIR. Sono figlio unico e il pomeriggio del 16 ho capito che significa perdere un fratello.

E, tornando al ’98, dato che mi stava parlando uno dei miei “autori-mito”, non è che il mio lavoro in quel momento fosse chissà che cosa. Più che altro saggistica, per capirci, ma di romanzi cartacei solo uno, uscito in sordina. Anzi, proprio di nascosto. Per dire che come autore ero proprio di nicchia, se non di loculo – ed ero già piuttosto vecchio, vicino al mezzo secolo.

Insomma, non potevo che rispondergli così: “Come sarebbe a dire che tu ammiri il mio lavoro? Tu sei l’uomo di Città oscura e ho detto tutto!

Ci stringemmo la mano (la mia scomparve quasi nella sua) e diventammo grandi amici, veri. Proprio per simpatia, per gusti personali molto affini (non tutti, su Tarantino e Lynch la pensavamo in modo diametralmente opposto) e per condivisa filosofia della vita.  E so bene che questa storia la possono raccontare in tantissimi perché quello che vi ho descritto era il normale approccio di Sergio. Lui, importante per davvero, faceva sentire importante il prossimo. Anche perché in lui viveva l’anima di un genuino talent scout, sempre alla ricerca di talenti “sodali” e a lui simili non tanto da poter lanciare nel mondo dell’editoria quanto per “fare delle cose assieme”.

Ma qui non voglio occuparmi della storia pubblica. I ricordi più belli appartengono al periodo “di Bassavilla”. Per colpa mia Alessandria la chiamava con il nome d’arte e io ero “il Palero di Bassavilla”. Veniva spesso a trovarmi – anzi a trovarci, con Marenzana, Bona, Claudia Salvatori, Edo Rosati, Fabiana e altri – e io qualche volta lo ricambiavo a Milano. Letteratura, libri, editoria occupavano una piccola percentuale dei discorsi intrattenuti a tavola. Si parlava – io tentavo di farlo sempre in modo scherzoso perché nulla era più appagante della sua risata – del mondo che deragliava sempre più, nutrendo così la sua straordinaria letteratura e le nostre più modeste, sempre comunque declinate all’ombra dell’Orologio dell’Apocalisse.

Ci sono cose che restano nella memoria a proposito di un amico che se ne va per sempre. Che se ne va, come lui, all’improvviso, quasi a tradimento (per capirci). La sua risata, come ho già accennato, e la sua voce. Sergio era dotato di una voce meravigliosa. Avrebbe potuto fare nella vita l’attore, il doppiatore, con quella voce che si ritrovava. E poi, scendendo nell’ovvio che sanno tutti quelli che l’hanno conosciuto: la bontà, l’altruismo, la sua concezione di “consorteria letteraria”, il metterci la faccia sempre.

Da quel giorno ad Asti ho di sicuro avuto un motivo in più per non perdermi un libro di Sergio. Quelli degli ultimi anni sono tutti autografati. L’ultimo, Magellan, mi è giunto una decina di giorni prima della sua morte con dedica e firma. E ancora oggi non ho aperto quelle pagine.

L’ho sentito al telefono una settimana prima del 16 giugno 2017. “Ehi, man, ci vediamo a Bassavilla!”.

Io dal 16 giugno 2017 non ho più scritto una riga di narrativa. Quel poco che è uscito e che uscirà a breve è frutto di lavori precedenti. Al momento, è passato ormai un anno, la  mia vena – se mai è esistita – è totalmente prosciugata. Non c’è calcolo in tutto ciò. Le cose vanno così. Quel mondo che Sergio rappresentava, senza Sergio, per me non ha più senso.