La bellissima Eva mitocondriale
di Fabio Di Vincenzo
Guido Barbujani
Come eravamo
Storie dalla grande storia dell’uomo
pp. 201, € 20,
Laterza, Roma-Bari 2022
L’idea dell’evoluzione umana come una sequenza unica e lineare di specie di ominidi che si susseguono nel tempo da antenati ancora scimmieschi fino alla comparsa della nostra specie, Homo sapiens, è ormai scientificamente tramontata. Anche tra i non specialisti il modello evolutivo alternativo così detto “a cespuglio” è oggi divenuto quello più popolare. Quest’ultimo, proposto per la priva volta nel 1976 dal famoso paleontologo Stephen Jay Gould in un saggio pubblicato sulla rivista “Natural History”, in seguito confluito nel suo libro Ever Since Darwin. Reflections in Natural History (WW Norton & Co, 1992), prevede l’esistenza di una pluralità di percorsi evolutivi di cui solo uno tra i molti possibili ha visto affermarsi, in maniera forse accidentale, l’umanità attuale con le sue caratteristiche. Tuttavia, il modello lineare dell’evoluzione umana, che trovava le sue giustificazioni teoriche nei fondamenti ecologici della Sintesi moderna degli anni cinquanta del Novecento (ma si riallacciava a idee prescientifiche di progresso molto più antiche legate alla così detta Scala naturae), scomparendo, ci ha lasciato in eredità un frutto avvelenato. L’abitudine mentale a rappresentare l’evoluzione umana come fosse un’unica grande narrazione descritta a volte con accenti epici e prometeici. Una sorta di persistente pregiudizio che ci porta a pensare ad antenati che contrastano con il fuoco e i progressi conseguiti con le tecnologie litiche le avversità che incontrano in ambienti ostili per pervenire infine a una nuova e più consapevole forma di umanità. Uno schema narrativo che prevede il susseguirsi di “tappe”, quasi fossero delle prove da superare lungo il cammino, associate ad altrettanti cambiamenti fondamentali nella nostra biologia e che ricalca quasi perfettamente alcuni degli stereotipi con i quali il nostro cervello crea quello che viene definito “monomito” o “viaggio dell’eroe”, presente nei miti fondativi di ogni cultura umana, come descritto nell’ormai classico libro del 1949 di Joseph Campbell The Hero with a Thousand Faces.
Se tale preconcetto inconscio è così radicato – per Campbell seguendo Jung è infatti archetipico – viene allora da domandarsi se sia possibile raccontare l’evoluzione umana in una forma semplice e comprensibile senza cadere nella trappola mentale dell’antenato/eroe che ancora ricorre in molti testi divulgativi di successo che ci raccontano di un unico percorso evolutivo degli esseri umani da animali a dei. Ѐ quello che prova (e a mio giudizio riesce) a fare nel suo ultimo libro Guido Barbujani, che molti lettori conoscono già per l’abilità nello sfatare falsi miti scientifici e contrastare ogni forma di pregiudizio. Già dal titolo, Come eravamo. Storie dalla grande storia dell’uomo, si comprende come l’accento sia posto sulla pluralità delle “storie” di singoli protagonisti distribuiti lungo le tante diramazioni in cui si articola l’evoluzione umana. Barbujani individua 15 di questi protagonisti, tutti fossili (tranne l’ultimo), uno per ogni capitolo di cui si compone il libro e il lettore può conoscerli per prima cosa guardandoli in faccia, o negli occhi come dice l’autore. Ogni storia infatti, tranne l’ultima che è un tributo e un omaggio alla figura di Charles Darwin che ci ha donato le chiavi concettuali per interpretare il senso della nostra esistenza nel dispiegarsi del tempo profondo della geologia, si lega al volto ricostruito con strabiliante perfezione grazie al meticoloso lavoro congiunto di scienziati e paleoartisti di un individuo vissuto migliaia, centinaia di migliaia o milioni di anni fa.
Ogni capitolo ci introduce quindi per prima cosa nella storia personale di un particolare individuo, come la piccola Lucy vissuta nelle pianure africane di oltre 3 milioni di anni fa quando i nostri antenati appartenevano al genere Australopithecus, o il giovanissimo ragazzo del lago Turkana vissuto quasi un milione e mezzo di anni più tardi e che condivideva con noi molte caratteristiche anatomiche pur appartenendo a una specie ormai estinta, Homo erectus, o ancora Ciccillo, il Neanderthal che ha visto spegnersi i suoi pensieri nell’oscurità di una grotta nell’Alta Murgia che custodisce ancora come uno straordinario tesoro i suoi resti scheletrici praticamente intatti dopo più di 150 mila anni. Ma si potrebbe continuare con l’Eva mitocondriale dalle fattezze ormai moderne e bellissime da cui tutti noi uomini e donne della specie Homo sapiens discendiamo, o Ötzi morto su un valico alpino dove la sua gente giunse portando con sé la più straordinaria e importante tra tutte le conoscenze umane, quella della produzione degli alimenti quotidiani tramite la coltivazione e l’allevamento. Partendo da queste storie, personali, intime, forse apparentemente secondarie Barbujani riconduce i grandi cambiamenti avvenuti nell’evoluzione umana, il bipedismo, la manualità, l’accrescimento dei volumi cerebrali, l’uso del fuoco, degli strumenti eccetera, alla loro giusta dimensione storica e non stereotipata di cose, meglio sarebbe dire adattamenti, che hanno funzionato nel passato per garantire la sopravvivenza di un qualche individuo, o della sua famiglia o del suo gruppo sociale e che sono arrivati fino a noi perché continuano a funzionare o per un qualche fortuito evento non previsto. C’è però un altro mito, anche questo molto persistente e tenace, che l’autore riesce a sfatare in questo libro così come anche nei suoi precedenti, quello che vuole che i grandi scienziati, ricordiamo che Barbujani è uno dei maggiori genetisti a livello internazionale, non sappiano parlare al grande pubblico facendo divulgazione di qualità, cosa rispetto alla quale invece Guido Barbujani si rivela ancora una volta un autentico maestro.
fabio.divincenzo@unifi.it
F. Di Vincenzo è curatore per il Sistema museale di ateneo dell’Università di Firenze
L’evoluzione a cespuglio rivelata dai fossili
di Mario Ferraro
Circa sei milioni di anni fa, in seguito a cambiamenti climatici nella parte orientale dell’Africa, che ridussero l’estensione delle foreste a favore della savana, due linee evolutive emersero, a partire da un antenato comune, che hanno condotto da una parte agli scimpanzè e ai gorilla e dall’altra alle diverse specie di australopitechi e, in seguito, a quelle del genere homo. Questo bel libro ricostruisce alcune tappe fondamentali della “storia profonda” dell’uomo. Si tratta di una ricostruzione indiziaria, con molte lacune, basata su ritrovamenti fossili e, limitatamente a resti di meno di 100.000 anni, sull’analisi del dna. Uno degli aspetti più affascinanti del testo è la spiegazione di come una gran quantità di informazioni possa essere ottenuta dall’analisi dei fossili. I ritrovamenti di resti di scheletri hanno permesso di ricostruire la dispersione geografica delle varie specie, l’analisi della struttura degli arti inferiori ha consentito di seguire l’affermarsi della posizione eretta e dell’andatura bipede, la struttura e la composizione chimica dei denti dà informazioni sulla dieta, mentre la forma del cranio permette di inferire non solo le dimensioni del cervello ma anche, in alcuni casi, il grado di sviluppo di certe aree funzionali. È questo il caso dei resti dello scheletro (circa il 40 per cento) di un australopiteco femmina, la famosa Lucy, appartenente alla specie dell’Australopithecus afarensis. Il volume del cervello di Lucy è simile a quello di uno scimpanzé ma la forma e dimensione delle ossa delle gambe mostra che gli afarensis avevano un’andatura bipede, a dimostrazione che il bipedismo ha preceduto la crescita delle dimensioni del cervello. Infine, sappiamo che Lucy era vegetariana.
Circa tre milioni di anni fa, da qualche specie di australopiteco, non sappiamo quale, si è evoluto il genere homo: durante la successiva evoluzione il cervello si amplia e le mani diventano sempre più simili alle nostre sviluppando la capacità di costruire attrezzi per mezzo di altri attrezzi, ad esempio colpendo una pietra con un’altra per ottenere delle schegge affilate. Tuttavia, non bisogna pensare che la nostra evoluzione, dagli australopitechi all’Homo sapiens, sia stata un processo lineare di sostituzione da una specie a un’altra, in una continua scala di progresso; è stata piuttosto una ramificazione di differenti specie, una evoluzione “a cespuglio”. Il libro ricostruisce le migrazioni che portarono il genere homo fuori dall’Africa e spiega bene, sulla base della teoria dell’evoluzione, come la dispersione geografica abbia generato un cespuglio di specie homo che si sono evolute in parallelo, la più conosciuta delle quali è l’uomo di Neanderthal, la più vicina alla nostra. Anzi recenti comparazioni del dna con quello umano suggeriscono che potrebbe essere una variante della specie sapiens (ipotesi che, peraltro, l’autore non condivide). L’uomo di Neanderthal rappresenta una specie relativamente molto evoluta, ma alla fine non è riuscita a sfuggire all’estinzione, per una varietà di cause. L’analisi del dna ha mostrato una variabilità genetica limitata, segno che le popolazioni erano piccole di numero, con un elevato grado di consanguineità. I neandertaliani erano principalmente carnivori, ma, sfortunatamente, l’anatomia delle loro braccia sembra rendesse impossibile l’uso di armi da lancio e quindi dovevano affrontare grossi animali a distanza ravvicinata: una tecnica di caccia molto pericolosa, come dimostrato dalle fratture trovate in molti scheletri. Non è sorprendente quindi, che nella competizione per le risorse con l’Homo sapiens, con un superiore livello cognitivo e meglio adattato all’ambiente, fossero molto svantaggiati.
L’ultima parte della storia profonda dell’uomo è rappresentata dall’emergere in Africa dell’Homo sapiens (la nostra specie) che presenta rispetto alle altre un più elevato livello cognitivo: basti pensare alle straordinarie pitture rupestri ritrovate in diverse caverne in Europa e lo sviluppo del linguaggio (anche se non sappiamo a quale punto dell’evoluzione il linguaggio sia emerso la prima volta). Nel corso di migliaia di anni gruppi di sapiens uscirono dall’Africa per diffondersi poi in tutto il mondo, dimostrando una grande capacità di adattamento all’ambiente.
L’ultimo capitolo presenta un profilo di Charles Darwin e un tributo alla sua opera, che “ci ha aperto gli occhi” e “ha spiegato come (…) siamo diventati ciò che siamo”. Questo è un eccellente libro, ben scritto, ricco di informazioni e considerazioni interessanti, che spiega chiaramente i processi evolutivi che hanno portato alla specie umana così come è oggi. Alla fine della lettura non si può non rimanere colpiti dal fatto che di tutte le specie evolutesi in innumerevoli generazioni solo la nostra sia sopravvissuta, grazie a mutazioni casuali che hanno migliorato il suo adattamento all’ambiente; veramente siamo qui per una serie di fortunati eventi.
mferraro@to.infn.it
M. Ferraro ha insegnato fisica della materia vivente all’Università di Torino