Quelli che il grande architetto lo mettono in cantina
di Elena Dellapiana e Paolo Dellapiana
Rivolgersi ad architetti capaci di rappresentare la magnificenza dei committenti è cosa vecchia quanto la pratica dell’architettura stessa. Lo stesso processo traslato dal potere spirituale e temporale alla mostra della muscolarità aziendale nasce con la necessità di comunicare il peso e la floridezza economica delle grandi compagnie allo scorcio del XIX secolo. Grattacieli che gareggiano in altezza e luccicore, stabilimenti che oltre ad accogliere macchine utensili e lavoratori, “parlano” di innovazione tecnologica e legano a filo doppio un’idea di modernità come immagine della meccanizzazione, tipica della prima metà del secolo scorso. Che produzioni tradizionali, legate al territorio e a saperi antichi, distanti dall’idea di progresso comunemente intesa affidino la propria immagine all’architettura, è invece tendenza molto più recente.
I territori segnati dai filari della “pianta madre” mediterranea, di braudeliana memoria, ritratti e narrati da artisti e scrittori e battuti dai turisti wine-taster, rimandano a immagini stratificate nella memoria visiva, letteraria e gustativa. Lo Château d’Yquem con le sue antiche cantine, scrigno di uno dei nettari più blasonati al mondo e icona dell’insediamento senza tempo con il suo corredo di merlature e torricini, tetti a spiovente rivestiti in scandole, pietra chiara che racchiude la lavorazione vinicola in distese di barriques sotto volte ribassate di saloni in cui si respirano atmosfere quasi chiesastiche, è appoggiato sul ricamo di vignobles che lo stringe in un abbraccio generoso e protettivo. Anche questo château, come altri costruiti a partire dal tardo XVII secolo con la doppia funzione di accogliere i cicli produttivi e presidiare i coltivi, cela, oltre ai segreti di produzione del Sauterne, una proprietà che lo allinea alla politica dei marchi (del lusso). Appartenente al gruppo Lvhm (Louis Vitton-Hennesy-Moet-Fendi), il fascinoso sito costituisce un tassello di un complesso disegno di mercato e promozione che vede lo stesso gruppo committente, in anni più recenti e ancora nella zona del Bordeaux, chiedere a Chistian de Portzamparc il progetto dell’ampliamento-laboratorio per un altro château storico francese, il Cheval Blanc (2006-2011), con una soluzione che appoggia alla preesistenza e alle colline segni convintamente attuali in una enunciazione-contrappunto che pare raccontare come ogni arte sia stata contemporanea.
La pratica di legare la produzione vinicola e la presenza dei grandi nomi dell’architettura corrisponde da una parte all’innovazione tecnica, alla presenza di enologi patentati e all’incremento della diffusione commerciale del vino, dall’altra al rinforzo della logica autoriale nel mondo dell’architettura e all’avvio dell’“archi-staring” negli anni ottanta, decennio complicato culturalmente e culla dell’edonismo che nel mondo occidentale sposa bene la degustazione del vino in contrapposizione all’appiattimento di superalcolici e soft drink.
Quantitativamente, i numeri che comprendono gli ampliamenti di impianti esistenti (in Francia) o revisioni di territori storicamente caratterizzati da coltivazioni e produzioni semi-intensive (Spagna o Portogallo) vedono un incremento esponenziale in quelli di esportazione della vigna fuori dal bacino del Mediterraneo: la California, il Cile, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Sudafrica. Territori di lontana colonizzazione europea, tramontate o modificate le vocazioni di giacimenti per la produzione di materie prime alimentari e perfezionati i modi di addomesticare zone ancora quasi prive di antropizzazione, sono aree che chiedono la presenza, in linea con la “lezione” di Las Vegas, di segni pop-didascalici, che rappresentino la tradizione vinicola e attirino nuove clientele in maniera sempre più pervasiva, grazie anche alle tante scene di film in cui eroi ed eroine romantiche, detective, ma anche yuppies e casalinghe sorbiscono calici di vino invece del consueto Bourbon.
Sdoganati gli architetti-artisti, nuove individualità tipiche del post-modern (Michael Graves nella Napa Valley, Ricardo Bofill in Francia), il nuovo secolo ha visto una sempre maggiore definizione del ruolo dei progettisti in una logica che obbedisce a un doppio registro: la funzionalità della linea di produzione per fasi e la necessità di dialogare con il territorio con modi insediativi che ne riprendano i materiali, l’andamento paesaggistico, le memorie antropologiche.
Rientrano in questa categoria, tra le altre, la Dominus Winery di Jacques Herzog & Pierre de Meuron (1996-1998), a Yountville (CA), un edificio lineare, quasi la citazione di una fabbrica, delimitato da pareti in blocchi di pietra basaltica in gabbie metalliche che definiscono un volume che si posiziona tra le costruzioni rurali tradizionali in pietra a secco e lo sfondo dei monti Mayacamas. In una logica simile, ma con la stringente necessità di inserirsi armonicamente in paesaggi storici ampiamente stratificati e visivamente connotati, tipici del Chianti come delle Langhe, la Cantina Antinori a San Casciano val di Pesa (Fi), firmata dallo studio Archea Associati (2004-2013), è uno degli esempi, insieme con la Rocca di Frassinello nel grossetano di Renzo Piano (2007), a svilupparsi in modalità ipogea, misurandosi con i vigneti esistenti, le curve di livello delle colline e il rapporto – anche visivo – con l’intorno.
Il complesso di Piano poi, introduce la componente di attrazione turistica: uno spazio di documentazione storica (sale espositive esperienziali firmate da Italo Rota 2018), ma anche un volume emergente – sulla scorta del ricorrente modello fortificato “a rocca” tipico del centro Italia – che riveste la sfaccettata funzione di struttura ricettiva, di belvedere e di segno caratterizzate del marchio (la committenza vede i Domain Baron de Rothshild Lafit). Cantine come marchi che diventano parte di una vera e propria immagine coordinata aziendale, dove il profilo dell’edificio passa a segnare graficamente etichette e campagne di comunicazione (ad esempio la Cantina Petra a Livorno di Mario Botta 2003 o la Bodega Ysios ad Alava (SP) di Santiago Calatrava, 2001).
Un’esigenza di comunicazione, dunque che ha trovato nel ricorso agli architetti di fama un modo di emergere: nel di per sé ricco e pregiato panorama del Roja spagnolo, l’altissima concentrazione di archistar – Norman Foster, Richard Rogers, Santiago Calatrava, Zaha Hadid, Frank O. Gehry, Philippe Mazières – ha permesso ad alcune cantine di spiccare rispetto ad altre in operazioni legate al racconto e all’esperienza turistica che associa alla degustazione e all’acquisto, hotel e Spa, che accompagnano le certificazioni degli enti preposti alla qualità del processo e del prodotto.
E questa direzione sembrano prendere le cantine in anni vicini a noi e in territori lontani dall’area mediterranea. Da una parte dove il “rinforzo” di tradizioni eroicamente trapiantate dall’Europa, come nel caso del Sudamerica (ad esempio la rarefatta Bodega Viña Vik di Smiljan Radić in Cile), dall’altra in aree di recentissima colonizzazione enologico-architettonica come la Cina, dove centri di ricerca e di documentazione, luoghi di coltivazione e vinificazione offrono l’occasione a enologi e architetti di sperimentare, quasi in vitro, nuove combinazioni (il centro Yangin ai piedi della Grande Muraglia, 2014 o il gigantesco wine center a Chang Li, 2010-in corso, tutti dello studio Archea), sicuro richiamo per archistar o aspiranti tali.
elena.dellapiana@polito.it
E. Dellapiana insegna storia dell’architettura e del design al Politecnico di Torino.
paolo@archicura.it
P. Dellapiana è architetto e fondatore dello studio Archicura e ha progettato insediamenti per la produzione vinicola nella zona di Barolo.