di Natalia La Terza
In un festival che sembrava dedicato alle famiglie disfunzionali, ha vinto il più disadattato di tutti. Fin dalla sua apertura, con Le verità di Hirokazu Kore-Eda, le protagoniste della 76esima Mostra del cinema di Venezia sono state le famiglie problematiche, caotiche, sacre, profane o addirittura ignote. Il Joker di Todd Phillips, vincitore del Leone d’oro, parte dal personaggio dei fumetti DC Comics per andare oltre, o meglio, indietro, scavando nel passato di uno dei villains più famosi di sempre. Il regista statunitense delle Notti da leoni questa volta si chiede: perché Joker è diventato Joker? L’interpretazione di Joaquin Phoenix, che per il ruolo della nemesi di Batman è dimagrito quindici chili e ha studiato la risata patologica, è memorabile, e avrebbe meritato – dopo quella vinta insieme a Philip Seymour Hoffman per The Master – una nuova Coppa Volpi ex aequo. È soprattutto grazie a lui, un professionista dei personaggi complessi, se ci appassioniamo a una parabola sfavillante ma a tratti prevedibile, che quando vira sul drammatico rischia il sentimentale e alla prima domanda ne fa seguire un’altra: da un’opera d’arte vogliamo un cattivo di cui aver paura o con cui empatizzare? In una delle sue versioni più avvincenti, undici anni fa, nel Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, il Joker di Heath Ledger era un nevrotico che si leccava le labbra, non controllava la lingua, un mostro di cicatrici e tic; il Joker di Joaquin Phoenix è un cabarettista fallito e disperato che non trattiene risate di dolore, vive con una madre folle ed è (forse) il figlio naturale e ripudiato di un miliardario corrotto. Uno degli aspetti più intriganti del film di Phillips sta nel voler lasciare una sottile ambiguità sulle primissime origini di Joker. Arthur Fleck è un cattivo che trova sempre qualcuno più cattivo di lui, pronto a sfruttare e a deridere le sue debolezze: non solo i competitivi colleghi clown, o i ragazzi della Gotham bene, – protagonisti di un’angosciante sequenza notturna in metropolitana – ma perfino il suo idolo, il presentatore televisivo Murray Franklin, un Robert De Niro che omaggia Re per una notte di Martin Scorsese e che si prende gioco di Arthur in diretta, all’interno del suo programma preferito.
Un altro bambino abbandonato, qui da genitori hippy, è lo Young Pope di Paolo Sorrentino. Nei due episodi della nuova serie presentati in anteprima al Lido, il seducente Lenny Belardo di Jude Law che cita Sant’Agostino e beve Cherry Coke Zero viene affiancato da un nuovo papa che come lui non ha avuto un’infanzia felice. Il New Pope, Giovanni Paolo III, al secolo sorrentiniano Sir John Brannox, è interpretato da un John Malkovich dandy e col kajal, un sofisticatissimo impostore che, dopo la morte appena ventenne del fratello gemello, i genitori non vogliono vedere né sentire. L’anteprima, che passa dal secondo episodio al settimo, è spezzettata con intelligenza e tiene alta la curiosità. Per evitare spoiler, quattro indizi. Svolge ancora un ruolo di primo piano il cardinale Voiello (Silvio Orlando), che piange per i film romantici hollywoodiani e per gli amici che stanno male; c’è più spazio per un personaggio femminile che già un po’ conoscevamo, la responsabile del marketing in Vaticano Sofia Dubois (Cécile de France), provocante e divertente insieme; c’è di nuovo Venezia, perché la teoria del regista premio Oscar è che la vita è breve e dobbiamo stare solo nei posti belli; e c’è la comparsa, nel territorio della Santa Sede, dei fondamentalismi. The New Pope, prodotta da SKY, HBO e CANAL + è tra le visioni migliori della Mostra.
Due amori difficili, due famiglie complicate, due coppie di artisti millennials in crisi sono al centro di due film dal gusto e sviluppo estremamente diversi, che avrebbero meritato più attenzione. Marriage Story di Noah Baumbach e Ema di Pablo Larraín, che, Premio Arca CinemaGiovani al miglior film e Premio UNIMED, è piaciuto al pubblico meno âgé: il primo, arriverà il 6 dicembre su Netflix, Ema sarà nelle sale italiane per Movies Inspired. Nel film del regista statunitense, la famiglia tradizionale composta da padre, madre e figlio si scompone e affronta un futuro incerto; in quello del regista cileno, il nucleo familiare prende forma una nuova, allargata e imprevedibile. Il nuovo film di Baumbach aveva cominciato a insinuarsi nella testa e nel cuore dei suoi fan qualche giorno prima del suo arrivo a Venezia76. Il 20 agosto, alla sua seconda produzione baumbachiana, Netflix aveva pubblicato sul canale YouTube due trailer: “(What I Love About Charlie)” e “(What I Love About Nicole)”, la versione di lei di quello che più ama di lui e la versione di lui di quello che più ama di lei. A Charlie piace così tanto fare il padre da essere fastidioso, Nicole è una madre che quando gioca con il figlio lo fa per davvero, lui al cinema piange facilmente, lei sa fare grandi regali: entrambi sono molto competitivi a Monopoli. Quando sono scritte bene, le liste sono un espediente narrativo intrigante, e Baumbach sa come si racconta una storia. In poche parole, Noah delinea i due protagonisti con cura, alterna i loro pregi difetti e fissazioni, e noi, dall’altra parte dello schermo, un minuto e mezzo per lei e un minuto e mezzo per lui, ci immedesimiamo e ci affezioniamo, e alla fine delle due versioni di Marriage Story ci chiediamo perché una coppia del genere – se non bastasse, interpretata da Adam Driver e Scarlett Johansson – dovrebbe lasciarsi.
New York. Charlie è un regista teatrale d’avanguardia, Nicole è la prima attrice della sua compagnia. Hanno un bambino tranquillo che parla poco, Henry. Lui è considerato un genio, lei è diventata famosa anni prima per una breve scena di nudo in un teen movie: si alzava la maglietta e il film finiva. Sono tutti e due bellissimi e a loro agio con il mondo, lontani dalle ragazze «infrequentabili» care a Baumbach, così attraenti quando appaiono insieme in una stanza da trasformare in una loro groupie anche la baby-sitter. Eppure, la coppia che all’inizio ci sembra perfetta, non lo è. Per questo film, Noah Baumbach ha detto di essersi ispirato a Persona di Ingmar Bergman, ma, primi piani a parte, Marriage Story è molto più vicino a Scene da un matrimonio, e non solo letteralmente. «Perfino non avere problemi, può diventare un problema» dice Marianne (Liv Ullmann) al marito nel film del regista svedese, e la sua battuta si applica bene a Charlie e Nicole. Uno dei punti di forza di Marriage Story è che Baumbach non svela nessuna causa scatenante, non mette in scena nessun dramma che possa spiegare la crisi della coppia, nemmeno l’intromissione di un terzo – quando uno dei due tradisce l’altro, dormiva già sul divano. La relazione di Charlie e Nicole si sgretola dall’interno, si rompe e perde in piccoli pezzi nella quotidianità, e per vedere una vera (e violenta) scena madre dobbiamo aspettare l’arrivo degli avvocati. Ai quali il regista regala interpretazioni preziose: Alan Alda nei panni del difensore vecchio stile, l’affabile Bert, è così tenero e mansueto che viene voglia di abbracciarlo; Ray Liotta è spietato nel ruolo di Jay, e ancora più di lui Laura Dern, una Nora Fanshaw fredda e magnetica, un’irresistibile manipolatrice che guardiamo dall’entrata in scena all’ultimo grande monologo sulla maternità in stato di ipnosi. È grazie alla sua apparizione, ai suoi metodi discutibili e al rapporto che instaura con lei – alternando empatici kleenex a violente messe in riga, tazze di tè pomeridiane a bottiglie di champagne di prima mattina – che Nicole trova la determinazione e il coraggio che le sono sempre mancati per ribellarsi a Charlie. In tribunale, le liste delle cose che si amano del partner vengono sostituite dalle liste delle cose che si odiano – o che si devono odiare, se si vuole vincere.
La comune competitività si sposta dai giochi da tavolo alla vita reale: Nicole e Charlie, che pensavano possibile una separazione amichevole, si ritrovano a puntare il dito contro le loro debolezze davanti a estranei, a giocarsi le più intime confidenze in aula. E vengono fuori le ambizioni taciute, le invidie non dette, i desideri di uno messi a parte dall’altro: anche Nicole sogna di diventare regista. «Ho bisogno di qualcuno da amare, non con cui competere» diceva Tony (Matthew Shear), l’aspirante scrittore adolescente non abbastanza talentuoso ma sincero di Mistress America: amore e competizione artistica sono i due grandi temi che attraversano tutta la filmografia di vincitori e vinti di Baumbach. Il confronto più evidente nel caso di Marriage Story è con una delle sue opere migliori, Il calamaro e la balena, la crisi matrimoniale di uno scrittore decaduto e di una scrittrice in ascesa, il quarto film del regista nel 2005 non ancora divorziato ma già figlio di divorziati, nel quale raccontava la sua prima storia di divorzio da quel punto di vista. Tre ultime cose su Marriage Story. È un film che ha tempi lunghi: 136 minuti che ogni spettatrice e spettatore Netflix, in compagnia o in solitaria, potrà somministrarsi a piacere. È un film di ampio respiro, che ha la potenzialità di essere apprezzato anche da chi non ama l’indie à la Baumbach/Gerwig: se Greta in Marriage Story non c’è non per questo mancano, accanto a cattive (Nora) e addolorate (Nicole), personaggi femminili più weird, come la timida e impacciata Cassie (Merritt Wever) e l’eterea e svampita Sandra (Julie Hagerty), 64 anni, sopravvissuta a un ex marito gay e ciclicamente, platonicamente, innamorata dei ragazzi della figlia. Sono la sorella e la madre di Nicole, e sono deliziose. Forse una delle pecche del film sta nel soffermarsi in certi momenti più sul protagonista maschile, ma è Nicole che alla fine fa commuovere, quando scopriamo cos’aveva scritto nell’ultima riga della lista dedicata all’ex marito, e quelle parole prendono forma nel suo ultimo gesto verso Charlie.
Tanto canonica la famiglia di Noah Baumbach, quanto caotica quella di Pablo Larraín. A tre anni da Jackie, il regista cileno torna a Venezia con un secondo film dedicato a un personaggio femminile. Ema appartiene a quella specie di donne che – per citare Jackie – vogliono il potere in amore. E lo ottengono percorrendo i percorsi più perversi. Valparaíso. Gastón (Gael García Bernal) è un coreografo che dirige una compagnia di danza sperimentale, Ema (Mariana di Girolamo) è la prima ballerina – e anche sua moglie. Lui è sterile, lei vuole un figlio. Adottano un bambino colombiano, Polo, che già dai primi giorni nella nuova famiglia dà strani segnali: il suo passatempo preferito è divertirsi a incendiare la casa con i fiammiferi, e un giorno arriva a bruciare il volto della giovane zia. In seguito a stravaganze che non riescono a frenare e forse fomentano, Gastón ed Ema decidono di riportare il piccolo Polo in orfanotrofio, finendo in un tunnel di sensi di colpa. Se c’è una lista in questo film, è quella delle colpe. Lui ne rinfaccia a lei e lei ne rinfaccia a lui – intervallando improvvise parole d’amore: lei passa con la stessa imperturbabilità dal dare al marito del porco al definirlo bello e prezioso – finché la volitiva Ema interromperà il circolo vizioso, abbandonando Gastón al suo misto di logorrea e autocommiserazione e attuando un piano che le permetterà di ottenere quello che vuole: avere indietro Polo e avere un figlio naturale. Jackie era un film d’interni, di lunghissimi corridoi, di asfittiche stanze, Ema è un film di esterni: il tema è la famiglia ma la casa interessa poco. Sappiamo solo che c’è un cane congelato nel frigo – e forse è meglio non indagare troppo su chi ce l’ha messo. Se c’è un luogo dove Ema vive, insieme alle sue fedelissime amiche ballerine, pronte a ogni cosa per lei, è la strada. Seguire queste ventenni per le strade di Valparaíso, mentre spiano sconosciuti o compiono crimini sempre muovendosi sulle trascinanti musiche di Nicolas Jaar, è come osservare delle baccanti a ritmo di reggaeton. La musica è la colonna sonora e portante, l’ossatura di Ema. La protagonista e la sua gang amano il genere tormento e tormentone degli ultimi tempi perché esprime ritmi atavici, sfacciati: ballarlo è liberatorio – ed erotico. C’è una cosa che non ho ancora detto: Ema e Gastón hanno 12 anni di differenza. Ema si ribella a una generazione che non accetta le novità (il monologo sul reggaeton di Gastón è tutto) e, nel caso del marito, «preservativo umano» fissato col teatro-danza, nemmeno le genera, e lo fa usando l’arma che lui non può usare: il sesso. Che è il fuoco. Polito non era l’unico piromane della famiglia. Girando per il porto cileno con il suo lanciafiamme, Ema «brucia per seminare», e nel suo rogo di seduzioni coinvolge anche i nuovi genitori del bambino che aveva abbandonato, una coppia che in confronto a Gastón ed Ema sembra perfettamente normale, ma ha i suoi sotterranei turbamenti. Diventeranno anche loro pedine nel piano – segreto tanto agli altri personaggi quanto agli spettatori – della machiavellica eroina di Larraín, interpretata alla perfezione dall’attrice cilena al suo esordio sul grande schermo: capelli biondo platino pettinati all’indietro, uno sguardo che sembra posseduto, un sorriso che disarma chi se la ritrova davanti, Ema l’ha detto a sua madre nei primi minuti e ne fa un manifesto lungo tutto il film: col suo corpo fa quello che vuole. Pablo Larraín gira un film sregolato e rischioso, che si muove per un’ora e mezza su ritmi incalzanti, elettronici e incendiari e finisce al passo morbido e non più morboso della tragicommedia. Con Ema, il regista cileno firma un film che coglierà alla sprovvista i suoi seguaci e che dividerà gli spettatori, ma che è una delle visioni più vive e gioiosamente irrequiete di Venezia76.