Indigesto brodo ideologico per euroscettici
di Elisabetta d’Erme
Già all’ascolto delle prime note di Pomp and Circumstancs di Edward, o dell’inno I vow to thee, my Country, nella mente di un cittadino britannico si scatena una tempesta ormonale, l’emozione diventa incontenibile, gli occhi si riempiono di lacrime e i palpiti del cuore accelerano al pensiero d’appartenere a quel popolo unico e speciale che fino a settant’anni fa disponeva di un impero su cui non tramontava mai il sole. Quei brani musicali si rifanno a un’idea di patria ideale che accomuna la Gran Bretagna imperiale alla Gerusalemme biblica, in un arcaico sogno di supremazia sovranazionale, ancora oggi avallato dalla certezza che la monarchia sia un’emanazione divina e che l’élite debba avere poteri illimitati. Col referendum del 2016 oltre la metà dei cittadini britannici ha espresso la volontà d’uscire dall’Unione europea, nella folle certezza di poter tornare a dettar legge su vasti imperi economici. Da decenni la Gran Bretagna cova risentimento verso i paesi europei che hanno in mano le redini dell’Unione, al punto tale da preferire il rischio di diventare una colonia americana o cinese piuttosto che seguitare a sottostare alle normative di Bruxelles. Come sia possibile che si tratti di un sogno condiviso anche dalle classi sociali più basse resta un mistero, perché sarebbero le più svantaggiate da un mercato deregolamentato, dallo smantellamento dello stato sociale, da un rampante ultra-capitalismo e anche dal nazionalismo fomentato dalla destra reazionaria.
Nel romanzo Middle England (Feltrinelli, 2018), Jonathan Coe aveva già sottolineato quanto la cerimonia d’apertura dei giochi olimpici di Londra del 2012 fosse una turbinosa parata di nazionalismo britannico, all’epoca però ancora mitigato dallo humour di Danny Boyle, regista dell’evento. Ora la scena è monopolizzata da una coppia di eccentrici clown: Boris Johnson e Nigel Farage che, per permettere alle lobby che rappresentano d’operare fuori dalle regole, hanno alimentato per anni tabloid, media e opinione pubblica inglese di fantasiose menzogne sulla Ue. Jonathan Coe non è l’unico scrittore che ha puntato sul tema della Brexit. Lo hanno fatto ad esempio Ali Smith con Autumn (2016) e Winter (2017) (tradotti in Italia da Big Sur), Michael Paraskos in Rabbitman (2017) e Amanda Craig con The Lie of the Land (2017). Romanzi (per una panoramica cfr. “L’Indice” 2019, n. 2) che offrono una visione distopica del paese in un futuro fuori dalla Ue.
Prendiamo ad esempio il romanzo di Amanda Craig, giornalista, nata in Sudafrica nel 1959, laureata a Cambridge, residente a Londra. Pubblicato in Italia col titolo Le circostanze (ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Valentina Ricci, pp. 505, € 20, Astoria, Milano 2019) il libro potrebbe essere letto come un giallo, ma è più interessante analizzarlo come descrizione dello scenario d’una Inghilterra post-Brexit affogata nella recessione. Il valore della sterlina e degli immobili è crollato, imprese e catene commerciali chiudono i battenti o, come le banche, trasferiscono gli affari all’estero… I protagonisti, una coppia in crisi, appartengono a quella che un tempo era una classe privilegiata: intellettuali e professionisti. Lei è un’architetto, lui un giornalista. La crisi che scuote le loro vite non è solo personale, ma anche economica, visto che entrambi hanno perso il lavoro. Non possono più permettersi la casa londinese costata una fortuna, né di mandare i figli in scuole privilegiate. Così si riducono a vivere in campagna, nel Devon, in una casa decrepita dove almeno l’affitto è irrisorio perché, come scopriranno presto, è stata la scena di un efferato delitto. Il romanzo, entrato tra i finalisti del Booker Prize, deve aver affascinato i lettori britannici per il suo messaggio finale. Quentin, Lottie Bredin e i loro figli vivono l’umiliazione della perdita di status, ma sopravvivono eroicamente alle difficoltà, alle ristrettezze economiche e a una vita priva di comfort. È la loro volontà di resistenza, anche di fronte al pericolo di morte, la capacità di reinventarsi una vita, che rende The Lie of the Land un classico romanzo dell’ideologia britannica nell’era Brexit.
Per comprendere le motivazioni che hanno portato alla Brexit meglio rivolgersi però a osservatori esterni, come al giornalista Marco Varvello, responsabile dell’ufficio di corrispondenza Rai per il Regno Unito, autore di Brexit Blues (pp. 255, € 18, Mondadori, Milano 2019), una raccolta di storie legate ai possibili destini post-Brexit di milioni di famiglie europee che vivono oltremanica. Racconti surreali, ironici e grotteschi che descrivono l’atmosfera di disagio che contraddistingue la vita quotidiana degli inglesi “euroscettici nel cuore, per motivi storici e ideologici”, da sempre auto-isolati dall’Ue. A cogliere maggiormente nel segno è il giornalista irlandese Fintan O’Toole, che ci descrive le morbose dinamiche della Brexit nel suo sapido saggio Heroic Failure: Brexit and the Politics of Pain (pp. 217, £ 11,99, Head of Zeus, 2018). O’Toole è uno storico, critico letterario e commentatore politico. Per i suoi articoli sulla Brexit apparsi su “Irish Times”, “The Guardian”, e il “New York Review of Books” ha ricevuto l’Orwell Prize e lo European Press Prize. La sua penna, che non tacque i mali d’Irlanda ai tempi della Tigre celtica e della successiva crisi, è ora usata per castigare quanto avviene sull’altro lato del Mare d’Irlanda e la sua analisi è inquietante quanto un film horror.
Secondo Fintan O’Toole le scelte degli inglesi sono state condizionate da un radicato masochismo, quindi la Brexit andrebbe letta come un atto di autolesionismo. Il libro s’apre con un capitolo dedicato ai “piaceri dell’autocommiserazione” in cui indulgerebbero gli inglesi, ovvero quella sensazione per cui più alta è la concezione che abbiamo di noi stessi, più grande è il rammarico per non aver ottenuto quanto riteniamo ci spetti, ed è in questo stato d’animo che verserebbe la Gran Bretagna dalla fine della seconda guerra mondiale. Da nazione vincitrice, non solo è stata privata del suo impero, ma è stata scavalcata da nazioni sconfitte come l’Italia e la Germania nell’ideazione e nella costruzione d’una nuova Europa. Entrata obtorto collo nell’Unione nel 1973 nella speranza di ottenerne benefici economici, pur mantenendo un basso profilo, la Gran Bretagna è sempre riuscita a strappare esenzioni, conservando i propri pesi e misure, restando fuori dalla moneta unica e dal Trattato di Schengen. Per la verità, dagli anni settanta in poi agli inglesi non sono mancati motivi per commiserarsi. Il neoliberismo di Margaret Thatcher aveva eroso lo stato sociale e aumentato esponenzialmente i tassi di disoccupazione. Poi, negli anni ottanta, l’epidemia della “mucca pazza” aveva aperto un nuovo fronte di crisi. Per non parlare delle catastrofali missioni militari britanniche in Afghanistan e in Iraq.
Fintan O’Toole evidenzia come, a partire dai primi anni novanta, in alcuni romanzi, serie televisive e film britannici s’iniziano a registrare inquietanti segnali di malessere, riconducibili a una sorta di delirio paranoico da sconfitta. Uno degli esempi è la Patrick Melrose Saga scritta tra il 1992 e il 2012 e filmata dalla BBC nel 2018 (i cinque romanzi sono stati pubblicati in Italia da Neri Pozza) in cui l’aristocratico Edward St. Aubyn descrive le dinamiche sadomasochiste che regolano una disfunzionale famiglia dell’alta borghesia inglese. L’eloquente frustrazione del giovane protagonista, che precipita in una spirale di autolesionismo, non è ancora niente in confronto alle ossessioni sostentate da alcuni best-seller di fantapolitica che descrivono l’apocalittico scenario d’una Gran Bretagna occupata dai nazisti, in quanto uscita sconfitta dal secondo conflitto mondiale. A questo filone, iniziato in verità già nel 1978 col romanzo SS-GB di Len Deighton, filmato dalla BBC nel 2014, appartengono il popolare Fatherland (1992) di Robert Harris (BBC 1994), Resistance (2007) di Owen Sheers, tradotto cinematograficamente nel 2011 e Dominion (2012) di C.J. Sansom. Il messaggio che questi popolari romanzi trasmettono al lettore inglese è chiaro: come avevano tentato di fare Hitler o Napoleone anche la Ue vuole unire sotto il suo potere tutta l’Europa. Lo stesso Boris Johnson, in un articolo del 15 maggio 2019 per il “Daily Telegraph”, ha sostenuto che la Ue è “un progetto hitleriano”.
In questo indigesto brodo ideologico ha trovato terreno fertile il culto d’una nazione che fallisce eroicamente. Da qui la glorificazione degli eroi dei disastri nazionali, da Sir John Franklin, che non riuscì a trovare il passaggio a nordovest, al generale Charles George Gordon morto a Khartoum, o la celebrazione del massacro di Balaclava nella guerra di Crimea (1854) nella poesia di Alfred K. Tennyson The Charge of the Light Brigade, della sconfitta della Somme durante la Grande guerra, o della fuga degli inglesi da Dunkirk, rievocata da Christopher Nolan nel film omonimo del 2017.
Dal libro di Fintan O’Toole emerge l’immagine di una nazione governata da pazzi e da bugiardi criminali. La follia dei politici pro-Brexit è esemplificata dalla campagna lanciata da Boris Johnson a difesa delle patatine al sapore di cocktail di gamberetti, minacciate a suo dire da una normativa europea sull’uso dei coloranti alimentari: il popolo britannico ha tutto il sacrosanto diritto di “eat their dog-shit and be happy” e nessun nazista tedesco può interferire sulle loro sacre (cattive) abitudini alimentari! Messaggi di questo tipo hanno raggiunto la pancia degli elettori, assieme a centinaia di fake-news.
A chi dare la colpa se oggi “c’è qualcosa di marcio” in Inghilterra? Ha senso accusare quella fabbrica di “First Class Minds”, ovvero il British Educational High System (Public Schools, Oxford, Eton e Cambridge) per non aver prodotto un’affidabile classe politica? Ormai lo stato delle cose nel Regno (Unito?) è fuori controllo, come il “sadopopulismo” dei Brexiteers. Che gli inglesi possano vivere tutto questo come un “eroico fallimento” non è di gran consolazione per nessuno.
dermowitz@libero.it
E. d’Erme è studiosa di cultura irlandese