di Lea Melandri
Mi è capitato spesso di dire che, se si raccogliessero i necrologi scritti da Rossana sul “manifesto”, ne uscirebbe un volume di straordinario interesse. Nessuno, come lei, sapeva restituire le vite, di persone note o sconosciute, al contesto storico e culturale in cui erano vissute con tanta nettezza di contorni e vivezza di particolari.
Allo stesso modo, si può dire che, partendo dal versante opposto, della donna che aveva visto il suo corpo farsi “oscuro” quando aveva voluto disporsi “sull’orizzonte smisurato della storia”, poche “scorrerie nella persona” – come le ha chiamate nel libro Anche per me (Feltrinelli, 1987) – sono andate così liberamente a fondo nella narrazione di sé per quanto riguarda le esperienze più intime, come la bellezza, l’invecchiamento, la morte. L’incontro col femminismo, che costringeva la politica a fare i conti con una “materia segreta”, imparentata con l’inconscio, aveva aperto dentro di lei, per usare le sue parole, una divisione tra il “profondo” e la “storia”, senza averle tolto la determinazione di voler essere non due ma “una sola”. In realtà, come si è capito dalle testimonianze dopo la sua morte, per la varietà e molteplicità dei suoi interessi è come se Rossana avesse lasciato nel “pieno di uni e une” dentro cui voleva riconoscersi, scoprendo somiglianze e differenze, dialogando e scontrandosi, tanti frammenti di sé: “una tessera del mosaico del mondo”, come amava pensarsi.
Nella nostra lunga, ininterrotta amicizia, nata in modo del tutto singolare nel corso degli anni settanta, quando ancora non ci conoscevamo e lo scambio avveniva tra i suoi articoli e le mie lettere cattivissime di risposta, che il “manifesto” sempre pubblicava, sono certa che molto ha contato la diversità delle nostre storie: la mia origine contadina, la scoperta della politica attraverso i movimenti non autoritari e il femminismo, il mio predominante interesse per quelle che Rossana definiva “le acque insondate della persona”, cioè tutto ciò che era stato considerato per millenni “non politico” e come tale consegnato al privato e alla immobilità delle leggi naturali. Se a lei la politica era “caduta addosso” con la guerra e la Resistenza, per me il pieno di corpi, povertà e violenza a cui avevo assistito nella mia famiglia di origine, unica figlia femmina a cui era stato dato il privilegio di studiare, aveva piegato per sempre lo sguardo verso gli aspetti meno presentabili della vita – esperienze universali dell’umano, come la sessualità, l’amore, la solitudine del singolo, le relazioni famigliari, ma che rimanevano dolorosamente il “fuori tema” nei miei componimenti scolastici. Quando uscì il mio libro, L’infamia originaria (L’erba voglio, 1977), dalla lettura che ne fece, dicendo che io l’avevo “gettata contro un muro” e che “lì restava”, capii che il femminismo interrogava il suo essere donna più intimamente di quanto non avessi pensato. Le trasmissioni che tenne su Radio Tre, in dialogo con le “Altre” su alcune parole essenziali della politica, me ne diedero ragione. Rossana aveva colto la “dimensione immensa, che sta nella identità di sesso” e l’aspetto “eversivo” di una cultura, come quella femminista, che si presentava non come complemento di quella di classe, ma come “unilaterale, antagonista. Non la completa, la mette in causa”, ma aveva fretta e avrebbe voluto che la rivoluzione delle donne cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo e “come un bisturi lo scavasse per rovesciarne il corso”. L’idea di rivoluzione, così “esigente e completa” del femminismo, presupponeva uno scavo in profondità, un procedere simile a quello dell’archeologo, lento e paziente, il contrario del suo attaccamento al “tempo che ci è dato”, di cui avrebbe voluto sapere tutto, compreso il giorno della sua morte. Tuttavia, si può dire che il bisogno “luciferino” di abbracciare il mondo, viverlo come casa propria, attraversare la storia e non limitarsi a guardarla passare, non ha impedito a Rossana di riconoscere nel corpo, nella sua “tragica” finitezza, in quel suo essere “noi” e “altro da noi”, la materia di cui siamo fatti e di cui sappiamo paradossalmente così poco, il residuo indistruttibile, biologico e astorico, di ogni individualità, ma anche il “limite oscuro” che incontra l’emancipazione politica. “Se non morissimo, non conosceremmo niente di simile alla vita che tanto ci è cara (…) La materialità di cui è fatta la vita è il tempo che fugge, il suo sangue è la nostalgia d’un sempre che non ci appartiene, ma sul quale soltanto ci misuriamo. Tanto che se il tempo non fuggisse e il sempre prendesse il posto della fine, la vita non avrebbe alcun significato.” (Filippo Gentiloni e Rossana Rossanda, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalità”, Pratiche, 1996). Il rapporto “non semplice” di Rossana col femminismo avviene nel ventennio anni settanta e ottanta, e quanto sia stato intenso intellettualmente ed emotivamente, lo dicono i due libri usciti in quegli anni: Le Altre (Bompiani, 1979), Anche per me. Donne, passione, memoria dal 1973 al 1986 (Feltrinelli, 1987).
È stato solo nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, che la ricerca di nessi tra la liberazione da un dominio legato alle vicende più intime, e un sistema economico, sociale e politico fondato sulle leggi del denaro e dell’inuguaglianza, a cui la sollecitava una inedita “amicizia tra donne”, ha cominciato a incrinarsi. Il dialogo tra noi, tuttavia, è continuato e ha avuto un felice prolungamento sulla rivista “Lapis” in una serie di articoli da me raccolti e curati nel libro Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri, 2018). La differenza delle ottiche tra noi – mi ha scritto in una lettera di una decina di anni fa – “è andata via via rinsaldando il nostro legame, invece di indebolirlo come di norma succede. E mi sono provvisoriamente risposta che più delle differenze conta la passione, il rovello che suscita in tutte e due l’interrogativo sui sessi e sul ‘femminile’, e il bisogno di scavare instancabilmente e rivoltare da tutte le parti ogni suo senso finché non ci persuada.”
Se dovessi dire dove si incontrano e intrecciano i diversi volti di Rossana Rossanda, che chi l’ha conosciuta e amata conserva gelosamente, userei le parole con cui descrive Rosa Luxemburg: “fermezza nel patimento, non incrinabilità, anche malinconia dei tempi lunghi della storia (…) la differenza di chi non divide se stesso tra pensieri e affetti, passioni e ragioni.”