Intervista ad Alessandro Bollo di Tiziana Magone
Siamo quasi alla fine dei cinque anni del suo mandato: può fare un micro bilancio di quello che è stato fatto e di che cosa il Polo del ‘900 è in grado di fare da adesso in avanti? Come ha trovato il Polo cinque anni fa e come si è strutturato adesso? Partendo da una specie di convivenza forzata tra enti, quali sono state le cose che hanno fatto sì che adesso il Polo abbia una un’identità molto riconoscibile in quanto Polo e non più come somma di parti?
Cinque anni fa ho trovato il Polo del ‘900 come un grande foglio bianco che aspettava di essere riempito da una grande azione di scrittura creativa e collettiva. All’inizio di quel periodo la cosa interessante era che il Polo fosse ancora poco più che un serie di “parti” alla ricerca di un modo che le facesse percepire e agire come parte di un “tutto”. Nel Polo risiedevano già soggetti culturali molto importanti, quasi una ventina, all’interno di un “condominio” che necessitava di essere trasformato in qualcosa che ne superasse la logica. Ed è questo il motivo per cui nel primo mandato di direzione molta attenzione è stata dedicata all’organizzazione e alle regole di funzionamento di un’istituzione che dovesse essere plurale e unitaria al tempo stesso. Al mio arrivo ho beneficiato della presenza preziosissima di Emanuela Totaro, la temporary manager che mi ha dato una mano fondamentale a capire il contesto e le principali sfide da affrontare. Il primo fronte è stato quello di costruire un gruppo di lavoro stabile e affiatato che potesse abilitare quelle funzioni di integrazione di cui il Polo aveva bisogno. Il secondo, invece, è stato quello di iniziare a lavorare insieme agli enti per creare un senso di appartenenza e per generare progressivamente consapevolezza attorno all’idea di creare un “noi” collettivo, che superasse gli steccati e le visioni particolari. Come tutti i processi di natura collaborativa è stato faticoso e i risultati sono costruiti giorno per giorno, passo dopo passo, tentativo dopo tentativo. Direi che la chiave di svolta di questo percorso, a un certo punto, è stata quella di lavorare insieme, concretamente, allo sviluppo di progetti: al di là della costruzione del modello teorico, al di là della “retorica” della collaborazione, c’è la dimensione pratica e fattuale del lavorare assieme – fatta di esperimenti, errori, negoziazioni, conflitti, mediazioni, pratiche autoriflessive, slanci di generosità e visioni condivise – in cui io credo tantissimo, che rappresenta uno degli elementi di eredità più importanti del mio mandato. Dopo cinque anni di pratiche e lavoro sul campo sono ancora più convinto che gli ambienti collaborativi producano impatti e moltiplicazioni di opportunità difficilmente perseguibili con modalità diverse. L’ideologia della competizione può lasciare il passo a modelli più maturi e consapevoli di collaborazione competitiva – o di collaborazione come quella che si è creata al Polo – a patto che tutti i soggetti coinvolti (e su questo aspetto ci tengo davvero a ringraziare tutti i nostri enti partecipanti) decidano di mettersi in gioco uscendo dalla propria zona di confort. È chiaro che questo percorso è stato costellato di difficoltà, di errori e anche di perplessità iniziali. Devo dire che alla fine di questo periodo è maturata la consapevolezza di far parte di un progetto collettivo inedito per il panorama nazionale: gli enti adesso usano un “noi” che non è quel noi acritico costituito dal dire semplicemente “facciamo parte di una grande famiglia”, ma è l’adesione a un percorso nato con l’intenzione di moltiplicare le opportunità, di non cadere nella trappola dell’omologazione dei punti di vista, di dare spazio anche al conflitto e alle divergenze come dimensioni fondanti della costruzione di uno spazio davvero plurale. Uno spazio dove è importante mantenere una tensione, un equilibrio tra le autonomie (anche culturali) dei singoli e l’identità dell’ente sovraordinato. Le politiche del personale hanno giocato, da questo punto di vista, un ruolo molto importante. Il fatto che il personale degli enti sia anche il personale della Fondazione, e che quindi attraverso il distacco le persone che lavorano negli enti lavorino anche al Polo con un part-time suddiviso equamente, è stato un elemento molto forte nella costruzione di un “cemento comune”. Leggendola retrospettivamente si tratta di una scelta positiva, perché ha consentito alla Fondazione di reclutare professionisti mediamente giovani, tra i 28 e i 45 anni, che hanno fatto un percorso di crescita professionale importante, portando, acquisendo e ibridando competenze: l’eredità di questo percorso risiede anche nel fatto che c’è un gruppo di persone che sono arrivate con background molto verticali – dal bibliotecario, all’archivista, all’esperto di comunicazione – e che invece adesso hanno acquisito delle competenze di management della cultura e di progettazione, che vengono riconosciute anche a livello nazionale. Tra l’altro, in questi anni, il Polo ha ricevuto diversi riconoscimenti proprio per il suo modello di funzionamento, aspetto che ci conforta in relazione alla direzione che abbiamo voluto perseguire.
In questi anni abbiamo, inoltre, lavorato anche alla costruzione di un “luogo” fisico. Nuove parti e nuove funzioni si sono aggiunte e una maggiore attenzione è stata dedicata agli spazi aperti: il cortile di Palazzo san Daniele, ad esempio – che all’inizio era semplicemente uno spazio di pertinenza della Prefettura e progressivamente è divenuto un’area attrezzata in cui da maggio a settembre si organizzano reading, rassegne di teatro e cinema – è diventato un polmone interessantissimo e particolarmente utile in periodo di Covid-19. Allo stesso modo, il fatto di aver realizzato, quest’estate, nonostante molti problemi, la pedonalizzazione della Piazzetta Antonicelli ha consentito di trasmettere l’idea che il Polo potesse uscire fisicamente nello spazio urbano e, quindi, di raggiungere l’obiettivo di coinvolgere un pubblico un po’ più ampio e più trasversale. Ritornare nello spazio fisico e mettere a disposizione la cultura per abitare i luoghi era una cosa importante da fare. Con il Museo della Resistenza, abbiamo anche realizzato il Dirittibus, una versione speciale del Bibliobus delle Biblioteche Civiche che andava in giro per i quartieri e ci ha consentito di moltiplicare l’impatto della nostra presenza, coinvolgendo e attivando persone con cui non saremmo mai venuti a contatto. Quando sono arrivato, alcuni degli obiettivi fondativi più importanti erano: costruire un senso di comunità, lavorare insieme agli enti, fare integrazione progettuale, dare particolare attenzione ai giovani e ai nuovi cittadini, lavorare su una scala metropolitana e regionale. Alcuni di questi obiettivi sono stati perseguiti (al netto degli effetti del Covid-19 presenti e futuri), altri sono ancora in corso di raggiungimento: con i giovani abbiamo lavorato molto e positivamente, con la nuova cittadinanza con meno efficacia di quello che forse avremmo potuto, sul territorio ci stiamo lavorando, e la Regione e la dimensione nazionale saranno le prossime sfide.
Il modello Polo del ‘900 ha avuto delle ricadute e ha creato dei legami con realtà culturali non torinesi? In che misura e in che modo è un modello esportabile o replicabile?
Sono molto convinto che quello del Polo possa e debba essere un modello replicabile in altri contesti perché ha a che fare con obiettivi di sostenibilità e di rilevanza sociale che sono affrontati, in questo caso, da logiche di tipo collaborativo-integrativo. Il Polo può anche essere letto come un piccolo ecosistema che si fa forza su significative economie di scala, prossimità e competenza, che non richiede esorbitanti risorse pubbliche, ma che al contrario restituisce al territorio con un effetto di moltiplicazione degli impatti generati. A titolo di esempio si pensi che il numero di persone che il Polo è in grado di attrarre e coinvolgere (alla scala locale come quella regionale) è di quasi dieci volte superiore a quello che i singoli enti producevano in modo autonomo e separato prima della sua nascita. Le economie suddette consentono di tenere aperto lo spazio dalle 9 di mattina alle 9 di sera, sette giorni su sette per tutto l’anno offrendo la maggior parte dei servizi a titolo gratuito.
Un altro tema importante è quello della digitalizzazione e della messa in valore degli archivi, che beneficia del lavoro importante fatto dagli enti partecipanti che inizialmente hanno abbandonato i loro sistemi di catalogazione e hanno utilizzo un applicativo Open Source (Collective Access) che adesso accoglie svariati fondi archivistici. L’interfaccia digitale, che si chiama 9centRo (https://archivi.polodel900.it/) ospita e dialoga anche con fondi e patrimoni di soggetti esterni (tra cui gli archivi storici del Politecnico di Torino, la Fondazione 1563, l’Ilsrec e la Fondazione Penna/Fuori!). Oggi sono più di 700.000 gli oggetti digitalizzati che sono direttamente consultabili con una logica di front- end pensata per un pubblico molto ampio, utilizzata da ricercatori e appassionati a livello nazionale e internazionale (circa 17mila gli utenti, di cui il 73% fuori Torino e il 15% fuori dall’Italia) e apprezzata anche dalla comunità degli operatori visto che nel 2020 9centRo ha vinto il premio “Gianluigi Spina” del Politecnico di Milano per il Miglior Progetto di Innovazione Digitale Culturale. Il prossimo step sarà quello di fare in modo che gli archivi digitali diventino non solo il luogo di deposito delle memorie, ma anche un “dispositivo” di produzione di nuovi immaginari e di nuovi linguaggi. Noi l’abbiamo già fatto in modo sperimentale, e in due o tre casi è stato davvero stimolante, ma in futuro l’archivio dovrà prestarsi sempre più a essere esplorato, utilizzato, osservato da occhi e prospettive “eccentriche” rispetto al suo uso tradizionale: vorrei che venissero a lavorare negli archivi filosofi, designer, artisti, hacker, medici, giornalisti, scrittori, drammaturghi per produrre nuova cultura, partendo dal materiale esistente. Ciò è già avvenuto tre anni fa assieme al Tpe, con Walter Malosti e lo spettacolo sul ‘68 Vogliamo tutto, che è stato costruito dopo mesi di lavoro della Compagnia Eros Ant Eros nel nostro archivio e con i nostri archivisti.
Per tornare alla domanda, sempre di più, in futuro, altre città potranno replicare o contestualizzare questo tipo di lavoro. Bologna, ad esempio, sta ragionando su un Polo della Memoria Democratica, che si baserà su meccanismi di integrazione tra gli enti culturali della città con modalità simili a quelle del Polo del ‘900. A Follonica, invece, a partire dall’esperienza del Museo Magma si intende creare una piattaforma digitale degli archivi del lavoro e dell’industria del territorio e il Polo sta rappresentando per loro un importante punto di riferimento.
Quali sono i progetti di cui va più fiero?
Molti dei “progetti integrati” che abbiamo realizzato – ovvero quelli che sono stati costruiti in modo collaborativo e co-progettato dagli enti – sono stati soddisfacenti nella misura in cui hanno rappresentato un fondamentale banco di prova per sperimentare modalità inedite di lavoro e di progettazione in comune tra le molte fondazioni e istituzioni del Polo. Poi, se dovessi scegliere tra i tanti, il progetto pluriannuale dello young board “900giovani” coordinato dal Centro Piero Gobetti. Attraverso questo progetto un gruppo di 20-30 tra ragazze e ragazzi hanno avuto l’opportunità di vivere, abitare e progettare attività culturali per e con il Polo. Di fatto si è formalizzata e internalizzata una “struttura” di giovani che operava stabilmente all’interno della Fondazione e che interveniva con ruoli diversi, in particolare quello degli “amici critici”: suggerivano come migliorare la comunicazione, quali temi e argomenti era importante affrontare e, soprattutto, avevano a disposizione un budget e risorse per organizzare un festival della durata di tre giorni, in totale autonomia. E’ nato così il 900 G-Days Festival, che è stato realizzato fino al 2020 e per i ragazzi è stata non solo un’occasione per mettersi in gioco, ma anche una grande opportunità per progettare in modo professionale, per sperimentare nuove formule di audience engagement e di coinvolgere pubblici diversi.
Penso sia stato, inoltre, importante sperimentare progetti e processi di utilizzo e valorizzazione degli archivi in senso artistico e creativo. L’abbiamo fatto con il teatro, con la grapich novel, con la fotografia e con un progetto artistico di intelligenza artificiale. Il duo artistico Salvatore Iaconesi e Oriana Persico ha lavorato, infatti, sugli archivi del Polo dando vita al progetto Smart Archive Search, un percorso di applicazione di Deep Learning e AI che ha messo in relazione arte, scienza e tecnologie per aprire le porte della ricerca archivistica a fasce di popolazione diversificate partendo dagli archivi di 9centRo. Obiettivo del progetto era anche quello di realizzare uno scambio virtuoso tra cittadini e istituzione. Da un lato, le persone aiutavano ad addestrare le IA nel riconoscere forme e concetti. Dall’altro le persone, attraverso esperienze accessibili e personalizzate, imparavano a conoscere le IA, il loro funzionamento, i loro limiti e le implicazioni che derivano dal loro uso.
L’ultimo progetto di cui vorrei parlare è un progetto che ha avuto luci e ombre, perché ha portato risultando interessanti, ma anche situazioni inaspettatamente problematiche: le attività estive nell’ambito della pedonalizzazione di Piazzetta Antonicelli. La pedonalizzazione ha, infatti, generato problemi al quartiere legati alla viabilità dell’area e alla percezione di un intervento non totalmente integrato nel contesto da parte dell’amministrazione cittadina. Al contempo, in un periodo di forti restrizioni e limiti, soprattutto per i bambini e i ragazzi, ha consentito di sfruttare al meglio le potenzialità degli spazi all’aperto e pubblici. Di sperimentare, cioè, uno spazio “terzo” in cui potere fare attività culturali, studiare, semplicemente passare del tempo con altre persone senza dover pagare come negli spazi dedicati al consumo. E’ stata inoltre, molto proficua la collaborazione con le Biblioteche Civiche di Torino che, attraverso il programma estivo della Poloteca, ha consentito di sviluppare attività a cavallo tra il welfare di prossimità, la promozione della lettura e attività per lo studio che hanno coinvolti più di 2000 persone organizzate in attività di micro-gruppi (per i vincoli Covid non potevamo avere più di 15 persone per volta).
Per quanto riguarda i progetti futuri?
Il programma del 2022 è già stato definito nella sua struttura generale e rappresenta la continuazione di un’idea che abbiamo sviluppato nel 2021 insieme agli enti e che abbiamo intitolato “Dove portano i venti. Crisi, transizioni, opportunità del nuovo decennio”. Si tratta di una formula biennale – 2021-2022 – che parte dalla necessità e dall’urgenza di trovare le domande più significative e possibilmente le risposte e le chiavi interpretative per comprendere e abitare al meglio questo nuovo decennio, affrontando con consapevolezza le sue tante sfide. La risposta da parte degli enti partecipanti è stata forte dal punto di vista dei temi individuati e delle conseguenti progettualità. Si parlerà, in un percorso coordinato dall’Unione Culturale Franco Antonicelli, di colonialismo, di post-colonialismo e della necessità di decolonizzare il pensiero e il nostro vivere collettivo. Manterremo uno sguardo internazionale, grazie ad un progetto su vecchi e nuovi populismi coordinato dalla Fondazione Vera Nocentini e dall’Istituto Gaetano Salvemini e parleremo di protagonismo politico giovanile nel ‘900 e ai giorni nostri nell’ambito del progetto Polis di cui il Centro Gobetti è capofila. Affronteremo il rapporto tra lavoro e sfide della sostenibilità nell’ambito della “Settimana del Lavoro” curata dall’ISMEL.
Quali collaborazioni avete instaurato nel territorio torinese? Sto pensando, per esempio, a quella con Biennale Democrazia…
Quella con Biennale Democrazia è una collaborazione strettissima – che si è rafforzata di edizione in edizione – che ci porterà a sviluppare dei cantieri di riflessione e di preparazione per l’edizione 2023 con particolare attenzione ai percorsi didattici per la scuola.
Dedicheremo, inoltre, particolare attenzione al tema del protagonismo giovanile rispetto alla politica. Su questo fronte si svilupperanno almeno tre progetti, stimolati anche da Fondazione Compagnia di San Paolo che chiede sempre di più a soggetti come il Polo di intervenire per abilitare contesti di partecipazione giovanile, di protagonismo nella sfera pubblica e di attivazione politica.
Il primo a partire sarà un progetto che stavamo seguendo con grande attenzione da tempo e si chiama Prime Minister. Si tratta di una scuola di politica per ragazze di età compresa fra 14 e 18 anni che vogliono intraprendere un percorso di formazione alla Politica – intesa come capacità di interpretare e guidare la società – e all’attivazione civica. La scuola è nata a Favara da Farm Cultural Park e Movimenta e dopo Matera, Napoli, Rieti arriverà a breve nel Nord-Ovest tra Torino, Ivrea, Asti e Genova e il Polo coordinerà il modulo torinese. Continuerà Next Gen U anche per il 2022, in continuità con quanto abbiamo fatto quest’anno insieme a 14 associazioni culturali del Piemonte e della Liguria sulle principali politiche europee e sul bilancio dell’Unione Europea attraverso confronti e la realizzazione di podcast. Ci piacerebbe che, alla fine dell’anno, queste tre linee (la terza è il progetto integrato Polis di cui ho parlato precedentemente) si intrecciassero idealmente in un festival che sarà organizzato tra novembre e dicembre 2022 e avrà al suo centro il protagonismo politico giovanile. L’iniziativa sarà ideata e co-progettata da giovani per sensibilizzare sull’importanza di agire come cittadini attivi e consapevoli e per creare attenzione, protagonismo e leadership rispetto alle grandi scelte e alle sfide dell’amministrazione della cosa pubblica. L’ultimissimo progetto che voglio citare è VentiTrenta, un progetto che si concluderà tra poco, nel mese di febbraio, ed è un laboratorio di futuro che facciamo insieme al Forwardto. A dicembre 2021, 60 tra ragazze e ragazzi hanno realizzato dei workshop pensati per sviluppare idee e scenari concreti di sviluppo futuro sui temi dell’inclusione, dell’educazione, della cultura e della rigenerazione dei luoghi pubblici. L’ultimo tassello sarà appunto quello di presentare i risultati di questo laboratorio di futuro ai principali decisori della città di Torino.