Senza fattispecie di reato
di Silvia Nugara
L’amore non uccide
Femminicidio e discorso pubblico: cronaca, tribunali, politiche
a cura di Pina Lalli
pp. 324, € 26,
il Mulino, Bologna 2020
L’amore non uccide raccoglie otto saggi, esito di un lavoro di ricerca collettivo in sociologia e scienze della comunicazione che osserva le strategie retoriche di presentazione della violenza contro le donne nei discorsi giornalistico, giuridico (sentenze dei tribunali) e istituzionale (testi di commissione parlamentare, pubblicità sociale) italiani degli ultimi dieci anni circa. La ricerca parte dal presupposto che servirsi dell’espressione femminicidio significa riferirsi a un problema sociale, iscrivendosi in un percorso avviato alla metà degli anni settanta allorché Diana Russell propose al primo Tribunale internazionale sui crimini contro le donne di Bruxelles di indicare “l’uccisione di una donna in quanto donna” con il neologismo inglese femicide. Questa sintesi lessicale permetteva, come riassume Lalli nell’introduzione al volume, di “rovesciare il dato per scontato dell’esercizio di violenza maschile quasi fosse ineluttabile o biologicamente determinato dalla fragilità del corpo femminile, per mostrarne, invece, le connessioni storico-culturali con la legittimazione sociale del potere di controllo maschile sulle donne, fino all’esercizio di possesso estremo del corpo femminile attraverso la violenza diretta e l’annichilimento”.
In Italia, la trasformazione operativa del concetto da parte di Istat ed Eures è però problematica: perché ci sia femminicidio non basta che una donna sia uccisa per mano maschile né che vittima e carnefice si conoscano; è necessario poter rilevare una dinamica di genere specifica, una componente misogina e di possesso, come fanno soggetti quali la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna. Il libro evidenzia l’intreccio parziale se non addirittura il conflitto tra diversi spazi comunicativi (dai movimenti ai tribunali, dalla politica ai media) e la coesistenza di vecchi e nuovi approcci alla rappresentazione della violenza contro le donne. Nei capitoli dedicati al discorso giornalistico, il trattamento del femminicidio è osservato principalmente attraverso i frames narrativi sia a livello di stampa nazionale sia in due studi di caso: la cronaca locale veneta e quella pugliese. Lo studio rileva che non sono scomparsi i più triti schemi interpretativi in termini di “amore malato”, “eccesso d’amore”, “raptus”, “perdita di controllo”, “movente passionale”, racconti routinizzati che studiose e movimenti femministi hanno sempre denunciato. Tuttavia, si nota “l’esigenza di riconfigurare attrezzature culturali rinnovate”. Nelle interviste a giornaliste/i di cronaca (carta stampata, online, tv) che accompagnano l’analisi dei testi è evidente un certo lavorio attorno alla parola femminicidio, al suo uso e al consolidarsi di nuove forme di consapevolezza dovute all’impatto di movimenti come Non una di meno. Fanno però riflettere i criteri di “notiziabilità” che privilegiano vittime giovani e misteri suscettibili di dispiegarsi attraverso racconti gialli a puntate trascurando vittime anziane, donne in situazioni di marginalità sociale e lavoratrici del sesso, soprattutto le straniere più sole, senza una rete sociale che ne rivendichi la rilevanza poiché, come sintetizza l’addetto di un’agenzia di stampa: “Se sei figlio di nessuno, anche nei giornali, nessuno si occupa di te”. Pure nel discorso giudiziario, il racconto del femminicidio è il risultato di un processo di ibridazione tra diversi campi discorsivi, analisi socioculturali, spiegazioni psicologico-emotive e obbrobri interpretativi quali l’“omicidio altruistico” di persone anziane o invalide. Per di più, non essendoci in Italia una specifica fattispecie di reato che rispecchi il concetto di Russell, esso va tradotto nei termini codificati dal diritto: stalking, percosse, maltrattamenti, stupro, omicidio, lesioni.
Il testo non ricostruisce tutta la genesi e la traiettoria dell’unità lessicale e delle sue varianti in Italia e resta sottotraccia anche nei due capitoli conclusivi dedicati al discorso istituzionale il ruolo non trascurabile dell’ambito internazionale e in particolare: a) dell’ONU e del CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women); b) del caso Ciudad Juárez e delle lotte in ambito latinoamericano come già osservava Barbara Spinelli in Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale (FrancoAngeli, 2008); c) del Consiglio d’Europa e delle sue rappresentanze nazionali coinvolte in una vasta campagna di sensibilizzazione svoltasi tra il 2006 e il 2008 e culminata con la Convezione di Istanbul del 2011.
Le parole sono sempre veicolo di memoria e di prospettive suscettibili di incidere sulla realtà sociale tanto più quando è in gioco il potere performativo del diritto. Per questo in Italia come altrove è in corso una battaglia simbolica per sottrarre la violenza contro le donne a visioni soggettivistico-psicologiche che ne occulterebbero il peso politico. La posta in gioco è l’eliminazione di quello squilibrio di potere tra uomini e donne, tra maschi e femmine, tra chi rientra nella norma e chi no, che regge l’ordine sessuale per come lo conosciamo. È forse la battaglia più radicale del nostro tempo.
silvia.nugara@unito.it
S. Nugara è dottore di ricerca in scienze del linguaggio ed è specialista in studi di genere