Intervista a Benedetta Tobagi di Santina Mobiglia
Il suo libro La resistenza delle donne è un caleidoscopio di figure e di esperienze che raccontano la presenza femminile nella Resistenza sul filo dell’intreccio tra liberazione collettiva e personale, a partire dalla ormai vasta raccolta di testimonianze scritte e audiovisive e con un uso originale delle immagini fotografiche. Come è maturato o è andato precisandosi in lei questo progetto?
In realtà proprio dalle immagini ha preso le mosse il mio lavoro e grazie a uno spunto esterno, tramite una segnalazione all’Einaudi di Barbara Berruti, storica dell’Istituto della Resistenza di Torino, riguardo a un poco noto materiale fotografico conservato nel loro archivio. Appena avuta la notizia, non ho esitato un attimo a prendere contatti per esaminare le immagini di cui ho colto subito il forte potenziale di spaesamento che ben si legava al potenziale narrativo delle testimonianze femminili, per loro natura antiretoriche e controcorrente. Anche per questo ci avevano messo del tempo a emergere, a essere raccolte in forma scritta o audiovisiva, ma ci sono, e ho capito che attraverso le fotografie si apriva uno spazio nuovo per lavorarci. Mi sono così immersa nella ricerca, aiutata da Berruti sul piano iconografico per allargarla ad altri archivi, e ho preso una serie di decisioni, per esempio non andare a cercare le ultime partigiane per intervistarle, perché su questo c’è già molto materiale raccolto ed è in corso il grande progetto Noi partigiani dell’Anpi per documentare le loro storie, ma rivolgermi invece ai molti libri che si trovano nelle biblioteche, a partire da Compagne (Einaudi, 1977) di Bianca Guidetti Serra, una vera pietra miliare per aver dato voce alle donne senza istruzione e lavoratrici, e utilizzare l’immenso patrimonio d’interviste raccolte a partire dagli anni settanta. Non sono una specialista della Resistenza, dunque mi sono messa a leggere, studiare, mentre andava chiarendosi l’ossatura del libro, che doveva far parlare le immagini all’interno di un racconto più ampio e volutamente divulgativo.
Particolarmente interessante la lunga serie di immagini perché si integrano nel discorso, mai semplici documenti fotografici ma fonte di suggestioni, riflessioni, congetture, domande. In che modo hanno potuto interrogarla, o persino guidarla, nel procedere del suo lavoro?
Proprio l’osservazione delle fotografie mi faceva scattare quasi naturalmente delle associazioni a momenti, situazioni evocate nelle testimonianze, e di qui ho tratto i nuclei tematici su cui è costruito il libro in una dimensione corale, tesa a mettere in risalto ciò che accomunava le esperienze vissute dalle donne, sia come combattenti armate sia nella resistenza civile organizzata nei Gruppi di difesa della donna, che le vide coinvolte in numero imponente (circa 70.000, in base ai dati ufficiali del CLN nel luglio 1944). Scartato l’approccio prosopografico o geografico delle loro vicende, e da sempre contraria a un inserimento puramente esornativo delle immagini, mi sentivo interrogata e persino provocata dalle fotografie stesse, dalle atmosfere che suggerivano mentre andava palesandosi subito molto forte l’intreccio tra liberazione collettiva e personale che ho cercato di inseguire tematizzandolo con singole messe a fuoco e da angolature diverse, rispettando una coralità in cui pure alcuni profili si stagliano con maggiore nettezza, ritornano, diventano riconoscibili e familiari.
Vorrei fare un accenno, quasi una storia nella storia da mettere in controluce, ai problemi che ho dovuto affrontare perché non sempre nelle fotografie sono precisamente identificati i soggetti, né dove o quando siano state scattate, pur negli immensi repertori che si trovano online: consultando degli studiosi mi è anche capitato di scoprire delle discrepanze nelle inventariazioni, con immagini di donne combattenti in Iugoslavia o in Spagna presentate come partigiane italiane. Anche questo è un aspetto non trascurabile della ricerca, come altre domande che mi sono posta: perché di alcune circostanze pur note sono molto rare le immagini? Che cosa invece viene considerato così rappresentativo da essere ricostruito, come sappiamo, a posteriori? Assenze e presenze comunque significative e pur sempre da interpretare nella sovrabbondanza persino travolgente di materiali disponibili.
Dal libro emerge un universo femminile variegato – di cui fanno parte donne di ogni classe e ceto sociale, in svariati luoghi geografici, con diverse motivazioni o atteggiamenti soggettivi – capace di un protagonismo collettivo inedito e al tempo stesso di scelte individuali autonome, in molti casi anche in contrasto aperto con gli stessi uomini della famiglia, talvolta persino antifascisti. Vogliamo commentare questi aspetti cruciali di rovesciamento o ribellione contro ruoli femminili tradizionalmente imposti?
Sono i temi di fondo che attraversano tutti i capitoli, variamente declinati. C’è innanzitutto un rovesciamento dei ruoli di maternage e assistenza per quei lavori femminili di cura tipicamente considerati umili e servili, dalla cucina al rammendo al bucato, ora invece rivendicati come fondamentali per l’esistenza stessa dei partigiani: “perché voi, senza di noi, non fate niente”, afferma una donna con la consapevolezza di far parte a pieno titolo di una lotta collettiva. E c’è un collettivo femminile, di apprendimento e rispetto reciproco, di assunzione progressiva di compiti da parte di donne delle più varie provenienze: se alcune di loro, soprattutto operaie, erano già diventate comuniste o socialiste nel lavoro in fabbrica, altre ricordano le leggi razziali del 1938, come momento di maturazione dell’antifascismo, ma per la maggior parte la scelta di impegno nella Resistenza è dettata dal bisogno di reagire di fronte a circostanze immediate, alla violenza nazifascista nell’Italia occupata. Va detto che le donne sono state le vere volontarie della Resistenza perché non avevano gli obblighi di coscrizione dei maschi, e rischiavano di più: oltre alla vita, anche la loro reputazione, per una scelta trasgressiva rispetto ai costumi del tempo, sfidando la morale collettiva e le convenzioni sociali fino a pagarne poi i costi, come raccontano alcune, con l’isolamento nel loro ambiente del dopoguerra. Ci furono fratture generazionali all’interno delle famiglie ma anche scelte guidate da una relazione personale, dall’amore per un uomo, un padre, un fratello, in una coesistenza di esperienze che furono comunque di grande emancipazione, di scoperta di libertà e possibilità per migliaia di donne. Anche di scoperta del proprio corpo, imparando a farne o non farne un uso provocante per ingannare il nemico in determinate situazioni, con veri aneddoti teatrali in cui gli stereotipi in cui erano state ingabbiate sono trasformati in un’arma, in uno strumento di potere.
Nell’insieme della popolazione, quello femminile non è comunque un mondo idilliaco nel suo libro: si ricordano, oltre alle collaborazioniste, le indifferenti, le borsaneriste…
Certamente, non volevo darne una visione idealizzata. C’erano anche le donne che sbattevano la porta in faccia alle partigiane, ben presenti nei loro ricordi. E quelle che nella guerra trovavano l’occasione di fare traffici con la borsa nera, praticando una sorta di emancipazione cinica e individualistica. D’altronde vediamo anche oggi molte manifestazioni del femminile in carriera, che sono sicuramente nefaste e del tutto indifferenti al destino delle altre donne.
C’erano poi quelle che tradivano perché innamorate magari di un repubblichino mettendo al primo posto la speranza del matrimonio: che i tradimenti per vicissitudini amorose fossero più frequenti fra le donne che tra gli uomini è motivo di indignazione ricorrente nelle testimonianze, mentre non dovrebbe forse stupire visto che all’epoca trovare marito era pur sempre ritenuto fondamentale per la propria realizzazione all’interno del modello dominante di vita femminile come moglie e madre di famiglia, mentre meno grave per un uomo era rimanere scapolo. Al contrario sappiamo che le donne resistevano di più alle torture, dunque comportamenti molteplici, che aggiungono valore a quante hanno saputo fare delle aspettative materne una risorsa portandole fuori dalla casa, e ne abbiamo esempi non solo tra i temperamenti ribelli. Un rispecchiamento insomma, da non trascurare, delle analoghe divisioni presenti nel mondo maschile, che va anche evidenziato e contribuisce dunque a illuminare la scelta etica controcorrente e coraggiosa delle donne impegnate nella Resistenza.
Si avverte, reso esplicito nella conclusione del libro, un suo coinvolgimento personale nel bisogno di ricerca di “antenate” che possano “aiutarci a dirigere meglio i nostri passi”. Dal suo punto di vista di donna, distante da loro di almeno tre generazioni, quali le lezioni di quella “moralità della Resistenza” femminile che sembra essere una chiave di lettura del suo lavoro?
Ogni generazione va alla ricerca dei suoi propri antenati e antenate, e proprio in questi tempi di disimpegno, indifferenza, lontananza, mi ha veramente toccato molto la capacità di lotta e di impegno collettivo femminile in un cammino che è stato anche di crescita personale, di presa di coscienza di modelli introiettati, con la capacità di far convergere sensibilità diverse. Ne è un esempio il racconto di Ada Gobetti di come sapesse coinvolgere delle donne cominciando magari a chiedere loro di fare delle calze per i ragazzi in montagna e poi, sulla base di questa naturale empatia o spirito materno, farle sentire più partecipi, capaci di discutere e imparare, assumere pian piano responsabilità maggiori. Sono atteggiamenti che dovremmo riprendere anche oggi verso le giovani generazioni: partire dal concreto per inserirlo poi in un disegno più ampio di trasformazione sociale. Anche allora le esperienze erano molto frastagliate, c’erano suore, infermiere, casalinghe, e se la fede politica, il sentimento risorgimentale e patriottico era molto importante per alcune non lo era certo per tutte, in una diversità di modi di essere, di agire nel mondo che può dare molta forza e ispirazione alle sensibilità più diverse. Le donne hanno, più degli uomini, molti modi di lottare, e la filigrana di allora si sovrappone benissimo all’oggi se ti interroghi sul tuo tempo e su cosa puoi fare tu. Penso ad esempio a un documentario molto bello di Benedetta Argentieri che cito (I am the Revolution, 2018) in cui, in tre teatri delicatissimi, la Siria in guerra, l’Iraq e l’Afghanistan, vediamo donne, in armi o senz’armi, che sono importanti agenti del cambiamento. Come Selene Biffi, un’imprenditrice sociale a lungo impegnata con le afghane, che ora lavora con le donne ucraine. La sua battaglia? Mettersi al servizio delle donne nei teatri di guerra o sotto i regimi repressivi, costruendo reti a sostegno del lavoro femminile, che possono diventare molto trasformative. Uscire dallo schema per cui la donna deve essere considerata solo vittima in questi contesti è ciò che avvicina molte situazioni attuali alla nostra Resistenza: una leva sociale potentissima, un catalizzatore del cambiamento.
Non mancano, in conclusione, riflessioni sulla delusione postbellica, sull’invito a tornare nei ranghi “zitte e buone” misto a una retorica commemorativa che presentava le donne resistenti come al tempo stesso “angelicate e virilizzate”, spogliandole dell’identità conquistata: “Il fascismo è finito, ma il patriarcato è ancora in gran forma”, lei scrive, e anche a opera del “fuoco amico” dei partiti in cui militano. Si può dire tuttavia che proprio dalla loro genealogia prenda le mosse il difficile cammino del protagonismo femminile nello spazio pubblico dell’Italia repubblicana?
Per anni l’icona della donna partigiana è stata la foto famosissima di una donna dai lunghi capelli neri con il suo fucile su uno sfondo di montagne innevate: identificata solo nel 2011 come Prosperina Vallet, valdostana: compariva nell’unico cartellone dedicato alla resistenza femminile nella mostra di Milano dell’estate ’45. Da allora non molto si era mosso nell’attenzione al tema se nel 1965, al grande convegno del Cln a Torino, Ada Gobetti dovette intervenire tirando le orecchie agli organizzatori perché, diceva, possibile che nessuno dica una parola sulle donne? Solo più tardi, dagli anni settanta, cominciarono a fiorire gli studi, non a caso insieme al nuovo femminismo, che portarono a mettere in luce l’ampiezza e il valore della partecipazione delle donne alla Resistenza, la sua funzione seminale nell’alfabetizzazione sui diritti per le battaglie e conquiste successive. Emergeva così un quadro complesso, dai molti risvolti personali e sociali, nel segno di una pluralità evocata dalle tante fotografie che ho potuto “cucire” analizzandole nel mio libro in cui, dopo le “grandi speranze”, parlo anche della “tristezza” del dopo 25 aprile, quando perlopiù alle donne non venne concesso di sfilare nelle strade delle città liberate. La loro storia, come del resto la questione femminile, rimase a lungo in secondo piano e, se era più prevedibile nel mondo cattolico, risulta stridente per le forze di sinistra, in particolare comuniste, anche se il Pci aveva sfornato una serie di dirigenti straordinarie, donne in gran parte provenienti dal mondo del lavoro. Ciò che fa impressione è che per molti aspetti sia ancora un problema irrisolto, dalla parità salariale ai riconoscimenti politici, proprio mentre nelle ultime settimane si fa un gran parlare dell’affermazione di una donna di destra in un percorso che è tutto individuale e competitivo, senza nulla di femminista. Insieme alla buona salute del patriarcato, a tener ferme le donne come una catena è stata la ritrosia, che ho potuto constatare in molti racconti: per modestia, forse per non mettere in ombra gli uomini in casa propria, tendono a fare un passo indietro, a minimizzare il loro ruolo, come fa una donna che non solo teneva la contabilità partigiana ma è stata anche torturata. Sono convinta che ancora oggi ci siano linee di tensione non pacificate, faglie ancora aperte su cui molto resta da fare. Della Resistenza delle donne ho voluto descrivere i costi umani insieme all’entusiasmo che ha dato un senso alla loro vita. Volevo fossero presenti entrambe le dimensioni, perché il chiaroscuro è l’essenza della comprensione.