Paolo Rumiz – Il veliero sul tetto

Speranza di cambiamenti europei dopo la “mitica” primavera 

di Federico Ingemi 

 

Paolo Rumiz
Il veliero sul tetto

pp. 125, €13
Feltrinelli, Milano 2020 

La primavera del 2020 non verrà archiviata, nella mente degli uomini, come la solita stagione in cui il clima diventa mite e la natura rinasce. Ciò che è accaduto inciderà la memoria della gente a tal punto che i racconti si eleveranno a grado di mito. Impossibile il contrario. Questa è la convinzione, o forse è meglio dire la speranza, che Paolo Rumiz nutre, scrivendo Il veliero sul tetto, il diario della sua quarantena vissuta a Trieste. Lungo tutte le pagine, la sua voce fuori dal coro stride con lo scenario in cui si è vissuto per mesi in Europa e nel mondo; le parole controcorrente quasi feriscono chi ha sofferto in quel periodo, “eroi” e vittime indistintamente: «Carogna-virus lo chiamiamo, ma dovremmo smettere di insultarlo, perché almeno ci avverte che la Terra è allo stremo». Nell’annullamento della frenesia e del traffico, nello smantellamento delle agende lavorative, vede un’opportunità; una luce salvifica in grado di rendere utile, se non essenziale, la tragedia della pandemia: tutto si ferma, l’uomo si riappropria della lentezza, che trasforma in ossigeno per la mente; la limitazione della libertà di movimento diventa possibilità di pensare («La costrizione, anziché limitare il pensiero, lo liberava, portandolo ad uno stato di allerta e di ebollizione permanente»). L’esperienza di clausura diviene così importante per riflettere, e per immaginare un futuro di cambiamenti radicali della società, che arriverà a chiedersi se mai rimpiangerà l’astinenza dal caos e se in futuro ne parlerà positivamente. Il luogo che accoglie molte di queste riflessioni è la terrazza del suo condominio che si affaccia sul mare, un rifugio fatto di antenne e cavi che lo fanno assomigliare a un veliero, grazie al quale può solcare la tempesta di pensieri che si affollano nella sua mente.  

Durante quello che definisce “momento sabbatico”, l’autore ha la possibilità di alzare la testa dai suoi impegni e guardare il mondo che lo circonda con occhi nuovi, con una ritrovata curiosità fanciullesca. Come un moderno Pascoli, riscopre la poesia delle piccole cose; trova l’eccezionale, fino a quel momento esperito durante i suoi viaggi, tra le mura di casa e nella natura che lo circonda: fare il pane diventa «un rito fatto di attesa e cura amorevole», una «gravidanza» di una creatura «cui manca solo la parola»; frasi ripetitive e svuotate di significato come “come stai” o “ti abbraccio” riacquistano forza e sincerità; il traffico ammutolito fa riemergere il suono del vento e i canti degli uccelli migratori nel cielo. Ma l’autore va oltre la meraviglia ritrovata nei gesti più semplici, amplia i confini della riflessione. Nonostante il blocco forzato delle sue attività, la sua indole di cronista non si spegne, anzi: la pandemia genera numerosi interrogativi circa le condizioni della società italiana e sulla possibilità che questa migliori dopo la tragedia. Durante un 25 aprile anomalo e austero nella ricorrenzaRumiz cerca di reinterpretare, di aggiornare, il significato di Liberazione: da chi e da cosa, l’Italia si deve liberare dopo settantacinque anni? I “nemici” si conoscono e portano il nome di mafia, burocrazia pachidermica, silenziosi corrotti, speculatori del territorio. Ma l’autore vuole rivolgere il pensiero ad altri nemici, più difficili da stanare perché il singolo cerca di non vederli, di far finta che si trovino in altri e non dentro sé stessi («troppo comodo ragionare per nemici, perché questo ci esime dal compito più arduo: l’esame di coscienza»). Tra le metastasi da eliminare in ognuno, ci sono il pensiero che «gli onesti siano fessi», il «vizio dell’autoassoluzione», «l’eterna speranza nell’impunità». Quel settantacinquesimo anniversario può essere la chiave di svolta, la possibilità di fare vera educazione civica e di creare una base su cui edificare un cambiamento radicale. Artefici di questo possono essere soprattutto i giovani, è a loro che si rivolge Rumiz 

Anche quando ragiona sulla stabilità, a suo avviso sempre più in bilico, dell’Europa, l’autore si rivolge alle nuove generazioni; si aggrappa a loro come ultima ancora di salvezza. Nuovamente ci si trova davanti ad un bivio: la pandemia può essere l’occasione di migliorare il progetto comunitario oppure la sua fine. Vede un’Europa ormai unita solo a livello monetario, in cui paesi che viaggiano a diverse velocità non riescono a prendere decisioni univoche su nessuna questione, neanche sulla gestione di un’epidemia globale. I sovranisti ringraziano. Rumiz è disilluso; non crede più a nessuna nazione dell’Unione ma crede negli europei, nei giovani europei che dovranno scuotere le istituzioni, saldando le crepe che si sono create tra i paesi e iniziando a pensare come una comunità più solidale ed ecosostenibile. Il suo ottimismo nel cambiamento viene risvegliato parlando con i figli, convinti sostenitori degli ideali citati prima e certi che questo periodo servirà da lezione. Ma si ha la percezione che sia temporaneo: come in altri passi del diario, dietro l’ottimismo e la speranza di miglioramento, si cela la consapevolezza che il cambiamento non ci sarà, ci si dimenticherà presto dei limiti del singolo e della società che sono emersi durante la primavera del 2020. Solo il tempo darà il suo verdetto.