Paola e Silvia Scola
Chiamiamo il babbo
Ettore Scola. Una storia di famiglia
pp. 286, € 19,00
Rizzoli, Milano, 2019
di Bianca Maria Paladino
«C’è un ordine segreto. I libri non puoi metterli a caso sugli scaffali. L’altro giorno ho riposto Cervantes accanto a Tolstoj e ho pensato: se vicino ad Anna Karenina c’è Don Chisciotte, di sicuro lui farà di tutto per salvarla».
Con questo ex-ergo di Ettore Scola prende avvio un libro di grande allegria, ricco di aneddoti, dettagli, riferimenti a personaggi, svelamenti di tecniche e fatti cinematografici, riflessioni private che ci introducono in casa Scola su invito di Paola e Silvia, figlie e collaboratrici di uno dei più grandi registi del Novecento. Il Titolo è: Chiamiamo il babbo, frase assunta a frammento di lessico familiare da una battuta di un film di Totò (va dal dentista per un ascesso, ma trova il figlio di quello, neolaureato ed incapace e preso dal panico bofonchia: “chiamiamo il babbo…chiamiamo il babbo!”). E sì, perché nella famiglia Scola esisteva un lessico di battute memorabili non solo tratte da film, ma da situazioni, spesso paradossali, che riguardavano momenti di lavorazione a copioni, confronti con collaboratori o fatti familiari, talvolta ripresi come battute nei film del regista. Il flusso di vita e cinema, le risate e le riflessioni critiche hanno caratterizzato la storia di tutta la famiglia, accogliente non solo degli amici dei suoi componenti, ma persino degli amici dei collaboratori (gli Open hause del giovedì sera). Ogni cosa, ogni fatto diventava spunto per una scena, per la caratterizzazione di un personaggio alla cui fonte non potremmo risalire se non fosse per i collegamenti segreti che ci svelano le autrici. Ne emerge un quadro familiare e delle persone di una vivacità ed ilarità che in molti casi fa venire le lacrime agli occhi! E sono le medesime lacrime di risate che ritroviamo in tanti film (in Ridendo e scherzando, in realtà di Paola e Silvia, ma in cui Ettore si racconta, o I Mostri), insieme alle occasioni di riflessione fornite da tanti bellissimi personaggi: quelli de La terrazza, La famiglia, C’eravamo tanto amati, Una giornata particolare, Che ora è, Che strano chiamarsi Federico, Ballando ballando o della indimenticabile Adelaide Ciafrocchi (Monica Vitti) in Dramma della gelosia. Accanto a questi i film che affrontano le trasformazioni sociali indotte dall’economia che cambiava osservate con la lucidità di chi guardava da sinistra i mutamenti del costume e delle classi: Trevico-Torino, il sorpasso, I nuovi Mostri, Brutti sporchi e cattivi, Concorrenza sleale.
Il racconto segue la crescita delle due figlie e con essa il graduale e naturale inserimento di Paola e Silvia nel mondo delle professioni cinematografiche (segretaria di edizione, assistente di studio, aiuto regista, sceneggiatrice la prima, sceneggiatrice e autrice radiofonica e teatrale la seconda) in ausilio del padre, in ossequio al complesso edipico, ma anche grazie all’incoraggiamento di personalità come Sergio Amidei, Age e Scarpelli. Destino inevitabile considerato che negli “anni ‘60 e ’70 il cinema a Roma era una comunità, una tribù” e gli amici di famiglia erano Maccari, Steno, Monicelli, Sordi, Gassman, Mastroianni, Manfredi, Tognazzi, Vitti, eccetera. Ma un aspetto interessante del modo in cui procede il racconto è il punto di vista delle due autrici sui medesimi temi. Quasi come assistere ad una conversazione: i racconti, che si alternano sulla pagina, durante la lettura si incrociano, si accrescono di dettagli, merito delle qualità di sceneggiatrici di entrambe. L’efficacia e la sintesi del testo ci riporta alle caratteristiche geneticamente ereditate dal protagonista del libro, alla sua capacità di scolpire fatti e personalità in poche battute, grazie ad espedienti tecnici (voci fuori campo anche diverse dello stesso personaggio, invenzioni linguistiche, l’escamotage per indurre gli attori a performance straordinarie), alle sue qualità di disegnatore umoristico dei tempi del Marc’Aurelio, la rivista di De Bellis e Cotone a cui collaborarono Metz, Marchesi, Mosca, Attalo, Fellini e, appunto il sedicenne Scola. Quel giovane dalla matita pungente resta sullo sfondo del ritratto personale che ne fanno le figlie in questo testo quanto in Ridendo e scherzando. «Disegnava sempre e dappertutto… durante la preparazione dei film papà faceva dei disegnetti per i collaboratori, per comunicare loro le idee iniziali di un personaggio o di una scena» (p. 77) e altrove lui stesso «Non credo alla bella calligrafia: credo a una scrittura che faccia capire le intenzioni di quello che si vuol raccontare. Solo così, penso, si riuscirà a emozionare lo spettatore» (E. Scola, Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini, Officina, Roma, 1996). Infine qualche esempio del lessico: Metodo Amidei (rigore); fatto un notevole passo avanti (non abbiamo fatto nulla); Trench (impermeabile a qualsiasi forma di sapere); Non scrivete scene madri, scrivete scene figlie (ridurre all’osso le scene); se po’ fumà (evocato per spezzare una ritualità); Telefonàmo a Ombre rosse! (nei casi impossibili); Apocalypse Cau (soprannome di Giovanna Cau); Glielo lo do io l’Oscar (la moglie Gigliola al quarto Oscar mancato), fino a Ho cambiato orari, il garbato rifiuto a tornare alla regia nell’ultimo periodo della suo vita.
bianca.maria.paladin@alice.it