Perché un brutto libro fa parlare di sé (e fa danni)
di Gianluca Argentin e Orazio Giancola
Paola Mastrocola e Luca Ricolfi
Il danno scolastico
La scuola progressista come macchina della disuguaglianza
pp. 272, € 19,
La nave di Teseo, Milano 2021
Capita a qualsiasi lettore di leggere brutti libri e ci si avvale, in questi casi, del “diritto di non finire il libro”, enunciato da Pennac. Purtroppo, non si può farlo sempre e questo è il caso di Il danno scolastico, alla cui lettura completa non ci si può sottrarre, se si studia la scuola italiana e si partecipa al dibattito pubblico su di essa. Infatti, il volume ha avuto ampia circolazione. Rispetto alla faticosa lettura, non ci si può nemmeno appellare al “diritto di tacere” (Pennac, di nuovo). Infatti, le tesi storte del libretto in questione hanno impoverito e stanno impoverendo il discorso collettivo sulla scuola. Tocca allora parlarne, anche se ovunque si sono già messi in luce gli innumerevoli problemi di questo testo.
Alcuni meritano comunque di essere ricordati anche qui. In primo luogo, la confusione definitoria sulla scuola “democratica/progressista/facilitata/ecc.”, che tutto può significare, a discrezione delle necessità argomentative degli autori, da un paragrafo all’altro. Si aggiunge a ciò la mancanza di chiarezza analitica rispetto al giudizio sulle molteplici finalità della scuola, che vengono rimescolate senza nemmeno essere tematizzate: contrasto delle diseguaglianze, promozione di una preparazione di base per tutti, inclusione, preparazione al lavoro, ecc. diventano un unico minestrone, anzi un passato, nel quale diventa indistinguibile l’oggetto di ciascun ragionamento. Si arriva poi a tessere improbabili assonanze tra i meccanismi di reclutamento dei docenti universitari e (i presunti) meccanismi di valutazione degli studenti nella scuola. Manca anche la necessaria contestualizzazione dei processi scolastici: si descrive l’evoluzione della scuola in diversi decenni, lasciando sullo sfondo l’espansione del sistema scolastico, sia della sua rete sia della partecipazione studentesca, e la profonda diversificazione che esso ha avuto su più piani (ad esempio, nella composizione della popolazione studentesca). Si trovano vere e proprie “cantonate” (termine che, racconta Ricolfi, usavano i suoi insegnanti in aula) e tra queste, spicca a mo’ di esempio la seguente: “Voglio dire che la famiglia non c’entra. Se in una casa ci sono o non ci sono i libri conta poco. Conta quel che fa la scuola, cosa ti insegna, e come. Contano i maestri”, ribadita anche nel seguito “Sarebbe il colmo che avere dei genitori che non hanno studiato portasse a non studiare! (…) Chi è figlio di laureati avrà meno spinta a laurearsi, perché sa che non potrà migliorare niente e tenderà a pensare che i suoi sforzi siano inutili: al massimo arriverà dove sono arrivati i suoi, ma sarà molto difficile”. Ciò è scritto con buona pace dei ricercatori che, nei decenni, hanno prodotto una mole immensa di studi empirici a riprova del contrario, bollati sotto l’etichetta di “tesi progressista” sulle diseguaglianze. A ciò si somma la forte autocentratura esperienziale degli sguardi dei due autori che, anziché adottare la cautela derivante dalla consapevolezza della parzialità della propria visione, viene rivendicata con orgoglio sotto la bandiera della “testimonianza” (Con i miei occhi è il titolo che accomuna i capitoli 2 e 3, il primo di Ricolfi e il secondo di Mastrocola). Le stesse analisi empiriche che dovrebbero supportare con rigore scientifico tali visioni soffrono di un insieme di limiti tali da renderle prive di qualsiasi credibilità scientifica. A tal proposito, è da sottolineare un uso quantomeno dubbio dei dati a disposizione.
Per un verso le fonti basate sul testing (più volte criticato dall’autrice e dall’autore) sono strumento di una lettura ipersemplificata, poiché questi dati non hanno senso se non letti in relazione a elementi di tipo contestuale e con consapevolezza delle operazioni misuratorie che hanno a monte. Inoltre, anche quando vengono presentate elaborazioni inutilmente (a nostro parere) complesse, i modelli impiegati banalizzano e semplificano i processi che legano gli elementi ascrittivi, quelli contestuali, quelli motivazionali e – cosa più rilevante – imputano (surrettiziamente) presunti effetti alla scuola. La forza di queste fonti di dati è tra l’altro quella di fornire un ampio numero di variabili su numerosi aspetti della vita scolastica e quotidiana; tali dati, se adeguatamente modellizzati, andrebbero probabilmente a mitigare (se non a smontare) i nessi “causali” presentati. Inoltre, parlando di evidenze, viene (opportunisticamente?) ignorata l’enorme mole di letteratura empirica sul tema della relazione tra i suddetti fattori e i risultati scolastici. In questa stessa letteratura sono presenti analisi basate su rigorosi approcci analitici, spesso teoricamente pluralisti, e ben consapevoli dei limiti insiti nei risultati empirici e, per questo, caute nel cercare di trarre implicazioni politiche semplicistiche. Tali cautele, nel caso del volume in questione saltano del tutto sia sul piano delle attenzioni di metodo sia della mancanza di un atteggiamento prudenziale nel fornire “prescrizioni” a partire da analisi parziali, basate su una modellizzazione statistica irrealistica. Inoltre, nel sostenere le tesi dell’appiattimento verso il basso, della minor capacità della scuola contemporanea di produrre conoscenze, si utilizzano dati sincronici riferiti all’attualità. Si usano cioè dati odierni per indagare fenomeni di mutamento di lungo corso, senza tener conto che in prospettiva diacronica le affermazioni fatte non trovano alcun supporto di evidenza empirica. L’effetto complessivo è quello di far scadere la trattazione che voleva essere scientifica e di “test delle ipotesi” in una nostalgia per una scuola seria e selettiva in cui inclusione, affettività e magari anche la riflessività degli insegnanti e dei dirigenti erano germi dai quali l’istruzione era immune (argomentazione già presente nel volume di Paola Mastrocola Togliamo il disturbo, Guanda, 2011).
Fatte queste considerazioni, ci pare utile provare a rispondere a una domanda: cosa porta un testo con così numerosi e tanto gravi limiti a ottenere buoni risultati editoriali e ad assumere rilevanza nel dibattito pubblico? Si tratta solo del combinarsi di provocazione spinta e rilancio dagli amici della grancassa mediale? Non crediamo sia così. Ci pare invece che dietro all’ampia diffusione di questo testo stiano almeno altre tre leve.
La prima leva è sintetizzabile con il termine “vaghezza”. La tesi portata avanti dai due autori è solo all’apparenza forte, dato che la confusione concettuale e misuratoria che la pervade porta a molteplici interpretazioni possibili. Provando a ridurla all’essenza, gli autori affermano che la scuola italiana è diventata sempre più facilitata e ciò ha ridotto il valore (e quindi i rendimenti) dell’istruzione per chi ha provenienze sociali più modeste. Che una scuola più facilitata generi titoli di studio con minore valore nel mercato del lavoro è lapalissiano, come il fatto che lo svantaggio sarà a carico di chi non ha altre risorse da far valere in questo mercato. Si possono facilmente identificare molte teorie economiche e sociologiche a supporto di questa tesi, tutt’altro che forte o provocatoria! Non è un caso che, per dare veste di j’accuse a questa tesi di base, il testo sia infarcito da una compagine numerosa di “nemici” (tra i quali: la riforma scolastica del 1962, don Milani, il ministro Berlinguer, l’Invalsi, ecc.). Non è un caso nemmeno il fatto che la compagine di “nemici” sia tanto eterogenea: ciò è anzi proprio funzionale alla vaghezza alla base del successo di questo testo. Se si mette sotto accusa tutta la politica scolastica dagli anni sessanta a oggi, non basta fare alcuni nomi per rifuggire la vaghezza della critica. Infatti, chiunque può trovare in queste pagine la stoccata al nemico che più ha “a cuore”, supportata da un’analisi che non tiene conto di contesti e complessità delle vicende scolastiche, frullando tutto indistintamente. Del resto, la vaghezza di intenti del testo è esplicitamente dichiarata sin dalle prime righe dell’Avvertenza: “Questo libro non pretende di dire dove dovrebbe andare il mondo della scuola e dell’università, che del resto va dove gli pare”. Cosa di meglio, per restare vagamente a cavallo di un pubblico ampio, di evitare accuratamente la formulazione di proposte che costringerebbero a prendere chiaramente posizioni, che finirebbero per scontentare alcuni?
Una seconda leva alla base del successo di questo testo è quella delle emozioni. Gioca in tal senso aver circoscritto le analisi empiriche a un solo capitolo e aver basato gli altri su chiavi che innescano, appunto, emozioni. Vanno in tale direzione l’“atto di testimonianza” richiamato costantemente nel testo; gli aneddoti su propri studenti; i molti elementi biografici (va riconosciuto agli autori il mettersi molto individualmente in gioco); la nostalgia dei bei tempi andati (impiegata a grandi manciate, nonostante gli autori precisino a più riprese di non essere nostalgici); il dipingersi come solitari (e isolati) contestatori – da sempre – di un sistema scolastico e universitario incapace di cogliere i loro moniti. Ha un peso emotivo anche la passione per la letteratura e l’esegesi del testo, ben trasmessa ancora una volta da Mastrocola (che però non interpreta uno scritto di don Milani, andando oltre il suo significato letterale, decontestualizzato e destoricizzato). È infine coinvolgente l’importante (e condivisibile) sottolineatura dell’importanza di continuare a coltivare nella scuola la scrittura, anche in tempi di digitalizzazione e di fantasiose forme di innovazione didattica.
Una terza leva di successo, decisiva, è che il ragionamento poggia su una considerazione ampiamente condivisa: le conoscenze disciplinari di chi oggi consegue un titolo di studio sarebbero più basse di quelle possedute da chi otteneva lo stesso titolo di studio cinquant’anni fa. Si tratta di un tema che echeggia nell’esperienza diretta dei genitori istruiti e, soprattutto, nel vissuto quotidiano degli insegnanti e dei docenti universitari. Non si tratta di una tesi nuova nella riflessione economica e sociale, dove si scrive da molti decenni di inflazione delle credenziali educative. Si tratta però anche di un elemento estremamente parziale, privo di alcuna misurazione rigorosa a supporto. Qualora fosse vero che le conoscenze sono oggi minori, come interpretare ciò, senza contestualizzarlo con l’espansione e la diversificazione della popolazione studentesca, da un lato, e con l’ampliamento della gamma di competenze trasmesse alle nuove generazioni, dall’altro? In sintesi: fossero anche minori le conoscenze di un diplomato oggi, quanto peserebbe nel confronto il fatto che in passato i diplomati erano tanto pochi e tanto selezionati a monte da non essere comparabili con la popolazione dei diplomati odierni?
In conclusione, dagli stessi dati di partenza – che i titoli di studio nella società attuale sono certificazioni di conoscenze meno solide che in passato (ripetiamo, affermazione senza riscontro empirico, anzi, in opposizione a risultati presenti in letteratura) e che le aspettative legate al valore di questi titoli non sono aggiornate al loro effettivo valore di mercato, che i sistemi scolastici devono affrontare il trade-off equità/efficacia, che gli insegnanti sono quotidianamente alle prese con la tensione inclusione-selezione, ecc. – si sarebbero potute trarre riflessioni più ponderate, parziali e meno provocatorie, finanche qualche proposta di soluzione davvero utile al dibattito. Sono molti i ricercatori che hanno lavorato su queste questioni, anche nel nostro paese, generando un ampio insieme di testi, che però Ricolfi e Mastrocola evidentemente non hanno letto, presi com’erano dal coltivare i propri personali sguardi.
gianluca.argentin@unimib.it
G. Argentin insegna teorie sociologiche e mutamento sociale all’Università di Milano Bicocca
orazio.giancola@uniroma1.it
O. Giancola insegna sociologia dei sistemi educativi e formativi all’Università La Sapienza di Roma