Fedeli costruttori del nemico sociale
di Roberto Escobar
Salvatore Palidda
Polizie, sicurezza e insicurezze
pp. 287, € 20
Meltemi, Sesto San Giovanni (MI) 2021
“La giustizia serve alla polizia per funzionare”. Questo illuminante paradosso di Michel Foucault apre il quinto capitolo di Polizie, sicurezza e insicurezze, e Salvatore Palidda avrebbe anche potuto usarlo come esergo del suo libro. Questo fanno le istituzioni quando altre istituzioni non ne limitino il “narcisismo”: tendono a riprodurre se stesse, ad assolutizzarsi, a fare della propria funzione sociale non più un fine, ma un mezzo. Vent’anni dopo il suo Polizia postmoderna (Feltrinelli, 2000), Palidda torna a un tema che ha studiato a lungo, e di cui in Italia non molti si occupano. Lo fa badando ai chiaroscuri, senza cedere né alla tentazione apologetica, del resto ben lontana dalla sua prospettiva di studioso, né alla tentazione opposta. La realtà della polizia è complessa, anche se la sua immagine sociale diffusa, avverte, è quella di una struttura ben definita, subordinata alla legge, al governo e all’autorità giudiziaria, “nel quadro dell’ordinamento istituzionale sancito dalla Costituzione della Repubblica”. Dall’immediato dopoguerra, continua, si è invece stabilito un patto tacito, di fatto, per il quale la fedeltà dei vertici della polizia ai vertici del potere politico (al governo) è ricambiata con una autonomia di gestione da parte dei primi. Nei fatti, la polizia e anzi le polizie – il nostro è il paese che ne ha di più, e tutte con poteri molto simili – “sono diventate quasi come dei ‘feudi’ a loro volta suddivisi in altri piccoli feudi, e nessuno intende rinunciare alle proprie prerogative e alla propria autonomia o ai piccoli privilegi”. Tra le conseguenze del patto ci sono chiari vantaggi per i suoi contraenti. In primo luogo, c’è la tolleranza degli illegalismi degli uni da parte degli altri, con la messa al riparo degli esponenti politici dagli attacchi dei concorrenti e con ampi margini di discrezionalità per la “pratica” dei poliziotti, anche al di là delle regole, e addirittura contro. La pluralità delle polizie e la loro relazione con il potere – insieme con la sovrapposizione dei compiti e lo spreco delle risorse – si sono confermate e riprodotte nel tempo, “senza che ci sia stato alcun risanamento” da parte dei vertici politici di volta in volta al governo. Questo, già in sé, rende necessaria la domanda che sta, ora implicita e ora esplicita, nelle pagine di Polizie, sicurezza e insicurezze: è possibile una polizia democratica, e a quali condizioni?
La risposta non può che tenere conto della situazione sociale, culturale e politica di questi anni, e anzi decenni, dominati dalla paura. E per paura si intende quella che leader politici diventati “imprenditori del consenso” hanno prodotto e continuano a produrre nell’immaginario diffuso. Nata alla fine degli anni ottanta del secolo scorso nella destra populistica ed etnistico/razzistica del leghismo, la politica della paura ha poi espulso dall’immaginario pubblico ogni altra strategia, e la cosiddetta “questione sicurezza” ha messo a tacere ogni altro slogan. Salari e stipendi inadeguati? Lavoro precario? Servizi sociali insufficienti? Tutto era (ed è) ricondotto al “veleno” diffuso nel paese dai gruppi minoritari, in primo luoghi dai migranti, ma con forti riferimenti a Rom e Sinti. Di loro occorre avere paura, della loro propensione a delinquere, della loro “inemendabilità”. Così ci è stato detto, e così ancora ci viene detto, senza che la realtà statistica della diminuzione dei crimini riesca a contraddire la narrazione sociale della paura o a indebolirla. E non conta che gli interessi concreti dei cittadini non ne traggano alcun vantaggio. Poiché si tratta di una “proiezione fantasmatica di colpa” sull’altro, ben poco vale la realtà dei fatti. I fantasmi valgono più dei dati numerici, più dell’esperienza diretta, più delle concrete difficoltà della vita quotidiana.
A questa costruzione del nemico sociale, e anzi del “mostro” sociale, partecipano le polizie. Come? Scegliendo di fatto, e secondo criteri che non sempre sono indicati dalle procure, quali comportamenti illegali della società civile “normale” siano da ignorare – a partire dall’evasione e dalla frode fiscale –, e quali comportamenti illegali veri o presunti dei poveri, dei marginali, degli immigrati siano da contrastare. Una prassi, questa, che ha contribuito alla etichettatura di interi gruppi sociali come criminali, e che – osserva Palidda – finisce per indicare le priorità di intervento alle stesse procure. Da un lato, tutto ciò è funzionale agli interessi di un mercato del lavoro sempre meno regolato e che trae vantaggio dalla possibilità di abbattere il costo della manodopera, lucrando della tragica neoschiavitù dilagante, in primo luogo nell’agricoltura e nell’edilizia. Da un altro lato, l’etichettatura criminale delle minoranze conferma nel loro pregiudizio i cittadini (che si ritengono) normali, e dà loro l’illusione di un ordine finalmente restaurato, o che lo sarebbe se solo si lasciasse mano libera alle polizie e ai metodi per così dire più risoluti (compresa la tortura, che una esponente di spicco della politica nazionale di recente ha rivendicato come necessaria al perseguimento della “verità”, in coerenza con una visione del mondo preilluministica).
Si produce così l’illusione che la strategia della paura funzioni, che sia realizzabile l’utopia (o la distopia) di una società senza crimine, e che ne portino il merito i leader e i movimenti populistici e identitari. È questa, ancora e sempre, una conseguenza voluta e cercata con il patto più o meno di fatto tra potere politico e polizie.
Ma davvero si può parlare delle polizie, per quanto al plurale, come di un corpo sociale unico, come di un monolite senza sfumature, senza differenze interne? E ancora, qual è il grado di somiglianza tra chi oggi lavora in polizia e il resto dei cittadini?
A partire dall’inizio del millennio, ci avverte Palidda, nelle polizie c’è stato un cambiamento generazionale analogo a quello avvenuto nella società civile. Tra i poliziotti “non ci sono più fascisti e razzisti né più corrotti o collusi o devianti di quanti ce ne siano tra la popolazione”, anche se “in certe strutture è stata favorita la concentrazione di operatori che hanno orientamenti violenti o devianti”. I giovani poliziotti di oggi sono più simili, anche culturalmente, ai loro coetanei di quanto lo fossero quelli delle generazioni precedenti. Di fatto, scrive Palidda, la maggioranza degli operatori “fa parte di cerchie sociali di tipo amicale che prescindono dai ranghi delle polizie”. E in esse creano la propria visione del mondo, che influenza poi i loro comportamenti “nelle pratiche operative”, si tratti di disprezzare poveri, marginali e Rom, o si tratti di averne rispetto. Da questa apertura alla più vasta dimensione sociale dei giovani poliziotti, così a noi pare di capire, può venire un contenimento del “narcisismo istituzionale” delle polizie, e dunque una risposta positiva alla domanda circa la possibilità di una polizia democratica: lo sarà tanto più quanto più democratica sarà la società. D’altra parte, crediamo sia ben fondato il realismo che chiude Polizie, sicurezza e insicurezze. Fin quando ci sarà asimmetria di “sapere, ricchezza e potere”, ci sarà anche una polizia al servizio di chi sta nella parte alta della gerarchia sociale. E dunque, bene che vada, ci sarà coesistenza di una gestione civile dell’ordine pubblico e di una sua gestione antidemocratica.
roberto.escobar@libero.it