La felice alterità
di Salvatore Renna
Sin dalle prime apparizioni risalenti all’epoca minoica della civiltà greca, Dioniso ha sempre rappresentato la più completa e radicale alterità. Dio che torna dalle terre lontane dell’India e che impone quel rituale estatico capace di scardinare non solo l’organizzazione sociale e politica della polis, bensì anche quella interna alla psiche di ogni suo adepto: la soggettività di chi accetta dentro sé la divinità viene infatti stravolta dall’estasi voluta dal dio, come esemplarmente raccontato dalle Baccanti di Euripide. L’esperienza che si organizza intorno a Dioniso rappresenta pertanto un’assolutizzazione del presente, in cui il desiderio lasciato fluire liberamente agisce come forza propulsiva verso una promessa di emancipazione: “tutto si gioca qui, nell’esistenza presente”, ha scritto Pierre Vidal-Naquet. “Il desiderio inconciliabile di una liberazione, di una evasione in un altrove (…) si esprime nell’esperienza in seno alla vita di una dimensione altra, di una apertura della condizione umana a una felice alterità”. Possibilità lontana e ormai inattuale, o ancora in qualche modo presente tra le pieghe di un mondo sempre più orientato verso una razionalità oppressiva e totalizzante? Come spesso accade quando si tratta di analisi di fenomeni culturali complessi e di lunga durata, la risposta dipende dagli oggetti verso cui si orienta lo sguardo e, al tempo stesso, dalla capacità di indagare tra le pieghe di una realtà che appare compatta e granitica, ma solo a un primo e illusorio sguardo. Al fianco di ciò che, col rischio di generalizzare, si potrebbe definire come il (post)moderno paradigma dell’Occidente capitalista, ovvero quello di un totale e completo controllo dell’io cartesiano sul mondo circostante, a cui si aggiunge la completa fiducia nell’integrità di questo soggetto egemone, la contemporanea svalutazione di qualsiasi esperienza che preveda la sua decostruzione, nonché l’incessante imperativo alla produzione e al consumo, sembrano emergere sempre maggiori spinte regressive, ovvero un complesso reticolo di pratiche, teorie e visioni antropologiche che si pongono programmaticamente contro l’assolutizzazione di quest’io, del quale scardinano illusioni, pretese e derive – proprio come la comparsa di Dioniso sconvolgeva molteplici livelli della realtà degli antichi greci.
Non stupisce dunque che sia la musica, e alcune ritualità moderne a essa collegate, a costituire il primo ambito di questo ritorno dionisiaco: non soltanto per l’importanza che quest’arte ricopre nel rituale estatico antico o per il ruolo fondamentale che le attribuì Nietzsche in pagine famose della Nascita della tragedia, ma anche per la sua intima capacità di rivolgersi alla componente più istintuale ed emotiva (tipicamente dionisiaca) dell’essere umano. Tale potere di eccitazione e, ancora con Nietzsche, di rottura del principium individuationis, è stato valorizzato dalla rilettura della musica tekno e della cultura rave recentemente proposto da Matteo Colombani. Sulla scia dell’esperienza dionisiaca antica e delle teorie di de Martino, Foucault, Deleuze e Guattari, il rituale del rave, ovvero il festival clandestino in cui per giorni si ascolta e si danza al suono della tekno, viene valorizzato come autentica eterotopia, ovvero luogo reale e simbolico in cui decostruire il soggetto egemone ed esperire se stessi e il mondo secondo modalità completamente altre. L’esposizione prolungata ai ritmi martellanti della tekno e l’assunzione di stupefacenti divengono così quelle tecnologie tramite cui sciogliere vincoli sociali e mentali oppressivi, rinnovando l’antica esperienza della trance quale modalità “affinché l’alterità, l’indeterminato, la potenza non più ammansita possano tornare ad avere un territorio di contesa, nel quale sarà possibile scorgere nuove individuazioni, allentare quelle soffocanti e rafforzare quelle piacevoli”. La carica sovversiva del rituale, sottratto alla narrazione mainstream (portata avanti da differenti organi di quel potere che mira a sovvertire), viene pertanto indagata nei diversi piani che ne compongono la pratica e la simbologia – musica, corpi, spazi –, permettendone una rilettura quale “rito senza obiettivi di potere, ‘un puro mezzo’, la cui funzione resta tuttora disconosciuta dalla struttura sociale”.
Ancor più audace appare la recente ricerca di Enrico Petrilli, che si concentra sul connubio tra piacere, droghe e musica elettronica nell’ambito della cosiddetta club culture, ovvero la cultura che ruota intorno ai club di musica elettronica (in cui rientra il sottogenere della teckno), che nasce dall’esperienza clandestina dei rave e che ne rappresenta, soprattutto secondo i più intransigenti sostenitori di quest’ultima, una normalizzazione all’interno delle dinamiche consumistiche del capitalismo. Mentre da un lato i rituali legati a tali club legali (e generalmente protesi al massimo guadagno) comporta senza dubbio una riduzione del potenziale eterotopico del rave, dall’altro l’intelligente indagine di Petrilli – che, in un impasto di sociologia, storia culturale e attivismo, si rifà soprattutto al Foucault della Storia della sessualità e alle riflessioni elaborate in Testo tossico da Paul B. Preciado – dimostra come anche in questa cornice la sperimentazione con sostanze psicotrope e la conseguente risemantizzazione del piacere rappresentino le modalità, insieme alla musica e alla danza, per trasformare il proprio sé, sottraendolo ancora una volta alle dinamiche di un potere che, in linea con Foucault, si esplica attraverso una molteplicità di pratiche e discorsi introiettati dal soggetto. Grazie anche a un’attenta ricerca sul campo e a numerose interviste a diversi clubber incontrati tra Milano e Berlino, il potenziale di tali pratiche emerge in tutto il suo potere trasformativo e generativo, proprio perché, invece di costituire esperienze isolate di puro edonismo apolitico, “le esplorazioni somatiche e i saperi sensuali dei clubber (…) possono diventare il fondamento per nuovi processi di produzione di senso, in cui le proprie esperienze sono utilizzate riflessivamente per comprendere in maniera diversa se stessi, gli altri, quello che si sta facendo così come la vita di tutti i giorni”.
Ma lo spettro del Dioniso antico e della sua carica perturbante aleggia nel mondo contemporaneo non solamente attraverso queste metamorfosi, poiché sono molteplici, sebbene talvolta molto lontani da noi, i luoghi in cui rituali estatici vengono tutt’oggi impiegati da diverse comunità umane. Il viaggio recentemente compiuto da Paolo Pecere tra questi luoghi e rituali, così come tra tempi e spazi simbolici piuttosto distanti, contribuisce ad allargare il quadro che si staglia intorno a quel “dio che danza” che dà il titolo al suo saggio. Muovendo nuovamente da de Martino e dal tarantismo dell’Italia meridionale, l’autore racconta di ciò che ha visto e vissuto in India, Pakistan, Brasile e Africa, restituendo un affresco complesso e affascinante di come certe pratiche estatiche e sciamaniche sopravvivano e si adattino a nuovi contesti, pur conservando l’antico potere di guarigione e liberazione che le caratterizza da sempre. Il connubio tra narrazione di viaggio e analisi saggistica contribuisce inoltre ad arricchire l’analisi proposta: se tali pratiche vengono sempre inquadrate nei rispettivi contesti storico-politici (nei quali assumono spesso la funzione di riscatto da parte di individui marginalizzati), la presenza fisica dell’autore e della tradizione culturale che rappresenta lo porta a mettere intelligentemente in discussione sia le idee più inveterate della nostra visione del mondo (come il rifiuto della molteplicità interna dell’io) sia il proprio sguardo di uomo occidentale, problematizzando un approccio che nasconde sempre il rischio di risolversi in sterile curiosità o, peggio, nel prolungamento turistico del dominio coloniale; per Pecere, invece, il confronto con Dioniso – e con tutte le altre divinità danzanti – “ci impone un confronto con le modalità a noi proprie di far fronte ai medesimi bisogni, dalla riflessione psicologica alle interazioni sociali o virtuali”, rilanciando così da una prospettiva maggiormente antropologica la necessità di decostruire idee e paradigmi che condividiamo spesso tacitamente.
E il medesimo intento è condiviso da un altro testo che, originariamente pubblicato nel 1992 e tradotto in italiano nel 2019, affronta tematiche simili da un’ulteriore prospettiva. In Il cibo degli dei, Terence McKenna propone una teoria tanto affascinante quanto discussa: se l’homo è diventato sapiens ed è entrato nel regno della cultura, è perché ha assunto sostanze psichedeliche che ne hanno potenziato la percezione, dando così inizio a esperienze proprie della nostra specie quali il linguaggio, la religione e l’arte. Se da una parte risulta difficile discutere nei dettagli una complessa teoria della cultura e dell’evoluzione (che si snoda tra antropologia, storia culturale e botanica), non si può non notare quanto, anche in questo caso, l’analisi di alcuni elementi già incontrati – come la stratificazione dell’io e il rapporto con le sostanze psicotrope – diventi occasione per ripensare il presente. Per McKenna infatti, che non a caso è tra i nomi più importanti di quel “rinascimento psichedelico” che da anni punta a una rivalutazione spirituale, clinica e politica delle sostanze psichedeliche e delle possibilità euristiche permesse da queste, il riconoscimento e l’adozione di “quel modello” di rapporto simbiotico, rispettoso e vicendevolmente arricchente tra uomo e natura costituisce l’unica via possibile in “questo momento”, cioè l’unico modo per evitare il rischio di un irrimediabile collasso ecologico e culturale: perché, secondo l’autore, se la soppressione della gnosi sciamanica ci ha privato “del significato stesso della vita rendendoci di fatto i nemici del pianeta, di noi stessi e delle generazioni future” e se “stiamo uccidendo il pianeta per mantenere intatti i folli presupposti dello stile culturale basato sul dominio dell’ego”, “ora la scelta che abbiamo davanti in quanto cultura planetaria è semplice: pensare ‘verde’ o morire”.
Ha dunque senso parlare ancora, oggi, di Dioniso? Perché tornare all’esperienza codificata dal culto estatico in suo onore per raggruppare e interpretare esperienze e pratiche profondamente diverse tra loro, come quelle descritte? La risposta a tali quesiti e a quello da cui siam partiti risiede nelle parole che proprio all’inattualità del dio dedicò Furio Jesi: “Ciò che importa, ciò che è destinato a sopravvivere, sopravvive apparentemente in segreto, in realtà nel modo più palese, giacché sopravvive come materia esistente di chi ha sperimentato il passato: come presente vivente, non come memoria di passato morto”. In questo senso, allora, è giusto e inevitabile che la riscoperta della molteplicità conflittuale della nostra psiche, la rivalutazione della dimensione corporea attraverso musica e danza, la risemantizzazione del piacere quale legittima parte dell’umano e il rinnovamento estatico del nostro approccio alla natura vengano vissute e teorizzate all’ombra di Dioniso, che, a quanto pare, non ha ancora smesso di tornare a sconvolgere ciò che consideravamo pacificamente acquisito una volta per tutte.
renna.salvatore@hotmail.it
S. Renna è dottore di ricerca in letterature comparate