Lo spillover da genere a genere
di Monica Bardi
Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (pp. 104, € 12, Einaudi, Torino 2022), il saggio di Andrea Debenedetti che esplora e analizza pro e contro dell’introduzione di questo simbolo grafico per superare le questioni legate al genere maschile/femminile nei nomi comuni di persona, coinvolge e incuriosisce in primo luogo quanti lavorano quotidianamente a contatto con la lingua: giornalisti, insegnanti, lessicografi, studiosi di linguistica, accademici. Tutti partiranno dall’assunto di base che la lingua è un sistema, un organismo vivo, e che vive nella bocca dei parlanti che appartengono a una comunità; la grammatica non può stabilire delle norme, ma solo descrivere questo organismo. Quante volte gli studenti di linguistica, cresciuti sui libri di De Saussure, si sono sentiti dire: “non ha senso sostenere che ‘si deve scrivere così’, andiamo a vedere ‘che cosa fa la lingua”.
Del resto molto è cambiato per principio di economia nella nostra lingua. Non lo vediamo solo a scuola nel lessico “creativo” dei ragazzi, ma anche nei testi e nei libri che normalmente leggiamo: ella/ egli sono scomparsi a favore di lei/ lui, il pronome gli è stato esteso al plurale (“i vicini facevano rumore; gli ho detto di smettere”); alcune previsioni catastrofiche sono state smentite dalla realtà: il congiuntivo non si è estinto ed è vitale, pur se, bisogna ammetterlo, talvolta maltrattato; in compenso il passato remoto è in sofferenza nel nord Italia, dove la forma vedemmo è sostituita in troppi temi degli studenti da visimo, prendemmo da presimo e così via; nella redazione del Gdli (Grande Dizionario della Lingua Italiana) fondato da Salvatore Battaglia, quando si discuteva di un neologismo, la strategia era quello di lasciarlo lì, a decantare, per vedere se avesse avuto o meno la forza di resistere nel tempo: figo è sopravvissuto, altre parole gergali si sono perse, come togo, o hanno cambiato significato come gaggio. Chi è linguista lo sa: la lingua fa quello che vuole (o meglio registra le esigenze di una comunità di parlanti) e non ci resta che prenderne atto. Osservarla, rispettarla. Magari stupirci.
È questo il punto di partenza di chi ha a che fare con la lingua ed è questo il punto di partenza anche di Andrea Debenedetti che, staccandosi volutamente dalla sterilità di un dibattito che è diventato acceso sui media, soprattutto dopo la petizione “pro lingua nostra” (contro lo schwa) lanciata dal linguista Massimo Arcangeli, ha voluto con questo libro fare il punto della situazione ed esprimere delle idee. Nella prima parte del saggio l’autore osserva e descrive, nella seconda parte stabilisce un punto di vista tecnico, per non dire scientifico, per arrivare infine a prendere una sua posizione. Su temi sensibili come questo il rischio della zuffa è reale, l’invettiva propria del mondo dei social è dietro l’angolo, ma in questo testo lo sforzo costante è quello del rispetto, della tutela del debole, della comprensione per chi ricerca pure nella lingua uno strumento di possibile emancipazione. Del resto, anche nel leggere le osservazioni di un linguista, è necessario preventivamente riannodare quel nodo di fiducia sociale che è diventato sempre più lasco: credere che un medico conosca la medicina, un avvocato la legge, un cuoco il cibo e il vino e, appunto, un linguista la lingua. Premessa necessaria, ma non banale, anche per questioni ben più cogenti dello schwa.
Ma che cosa è allora questo schwa fin qui evocato? È un segno grafico “neutro” che corrisponde a una e rovesciata e consente di includere le donne in caso di plurali per insiemi in cui sia presente almeno un elemento femminile, di riferirsi a un individuo di cui si ignori il sesso o l’identità di genere, di garantire cittadinanza grammaticale a persone non binarie, che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. Un simbolo estremamente suggestivo perché si appoggia a una lettera rovesciata, a un suono sordo, alla nostalgia di un “neutro” che non c’è più. C’è una rivendicazione implicita nello schwa, un montaliano “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” che chiede di essere ascoltato. Un sintomo, se preferite, un appello morale, forse.
Debenedetti compie un lavoro di analisi e di osservazione di questa sperimentazione, cercando, come dichiara, di lavorare in modo libero, rifiutando il ricatto morale per cui non è inclusivo o non è attento o non empatico chi … (e qui si potrebbe compilare una lunga lista). L’autore sta al di qua o al di là di quell’atteggiamento vittimario di chi pretende di prendere parola e di acquisire una presunta superiorità morale in quanto “vittima”, un concetto ben illustrato da Daniele Giglioli in un libro diventato “un classico”, Critica della vittima (Nottetempo, 2014). Perché le buone pratiche, come spiega Debenedetti nell’Introduzione, non possono poggiare su un ricatto morale, posizione sulla quale non pochi dei cosiddetti “buoni” del nostro tempo hanno costruito le proprie fortune. Il tentativo è quello di raccontare, illustrare, ragionare con il lettore (ed è per questo che il suo libro è, come si dice in gergo, “agile” e limpido): via le idee ricevute e trasmesse in modo dogmatico nel tempo, ma via anche le semplificazioni veicolate oggi dai social media in modo più pervasivo e non necessariamente più democratico.
È evidente che questo dibattito sulla lingua, come fa notare Cristiana De Santis in un bell’intervento pubblicato il 9 febbraio 2022 sul sito della Treccani (L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata), investe la questione ben più pregnante e importante del ”genere” inteso come categoria socioculturale, distinto dal concetto di “sesso (biologico)”: si tratta di un’accezione relativamente “nuova” del termine genere, frutto di un calco dell’inglese gender, accolta dai dizionari italiani più aggiornati. Ciò di cui si dibatte è infatti il concetto di identità di genere, locuzione registrata dal nuovo De Mauro e così definita dal vocabolario Treccani: “la costellazione di caratteri (…) che definiscono il genere in sé stesso in quanto posseduto, accettato e vissuto dall’individuo nella storia familiare da cui proviene e nella società in cui vive”. Questo è il quadro semantico in cui ci muoviamo quando prendiamo in considerazione l’uso dello schwa.
Ed è su questo terreno che avviene, scusate il bisticcio di parole, il salto di genere, lo spillover: che rapporto c’è realmente fra questo concetto di “identità di genere” e la categoria grammaticale? È proprio questo il primo ostacolo che incontriamo. Bisognerebbe distinguere il genere come categoria socioculturale dalla categoria grammaticale di “genere”, che in italiano oppone maschile e femminile e si manifesta attraverso la differenziazione di forme pronominali e di desinenze nominali, oltre che nei meccanismi dell’accordo (per esempio tra il nome e l’articolo che lo determina o l’aggettivo che lo modifica). I due concetti di genere sono sovrapponibili solo parzialmente: “femminile” e “maschile” in grammatica non sono sempre riferiti a uomo o donna. Basti pensare ai nomi di cosa (“sedia”, “tavolo”) o a parole come “guardia”, “persona”, “sentinella”. Tali parole fanno piuttosto riferimento alla prima e seconda declinazione latina che entrambe infatti contengono parole sia di genere maschile che femminile. Per non dire di altre lingue, per esempio del tedesco dove il termine corrispondente a “ragazza” è das Mädchen di genere neutro.
Proprio il genere neutro (di cui si reclama il bisogno per la lingua italiana) esisteva in latino, è vero, ma era usato prevalentemente per distinguere ciò che è inanimato da ciò che è animato, ed è scomparso per morte naturale nel processo che ha portato alla nascita della nostra lingua. Il maschile si è presto imposto, anche perché statisticamente più diffuso, affiancando alla funzione marcata rispetto al genere (maschile come opposto al femminile) quella non marcata rispetto al genere (maschile esteso o inclusivo). Debenedetti espone uno spettro ampio di possibilità alternative al “maschile esteso” in presenza di un elenco di parole di genere diverso, a proposito dell’accordo al maschile plurale: esistono in effetti altre possibilità, come l’accordo di prossimità o quello di maggioranza, esplorate in altri momenti storici o in altre lingue. Ma non dobbiamo dimenticare che il maschile generico, per quanto frutto di una convenzione, viene acquisito come forma indipendente ed è spontaneamente applicato nel parlato, che sempre precede lo scritto: scegliere di eluderlo vuol dire costringersi a complesse acrobazie linguistiche quando si parla e, nello scritto, a manipolazioni che possono generare incomprensioni.
Ritornando nel territorio del singolare, la categoria del genere si manifesta in modi complessi, non riducibili all’opposizione di desinenze (come -o/-a) nella flessione di nomi, articoli o aggettivi. A livello morfologico, infatti, il genere grammaticale agisce anche nella formazione delle parole (con l’alternanza di suffissi in parole come at-tore/at-trice, per esempio); in molti casi, inoltre, la codifica del genere non è affidata alla morfologia del nome, ma dell’articolo che lo determina (il parlante, la parlante). Di fronte a soluzioni che prevedono lo schwa, allə lettorə o lə lettorə si può obiettare che lettorə rimane un nome maschile, anche se abbiamo apposto un suffisso diverso, e che lə lettorə è una sequenza priva di eufonia oltre che di grammaticalità. Decidere di agire sulla terminazione o sul corpo delle parole per occultare il genere, in ogni caso, non equivale a intervenire solo sull’ortografia (non si tratta di cambiare una lettera, sostituendola con un simbolo più “neutro”): vuol dire intaccare in profondità la morfologia della nostra lingua, smagliandone anche la sintassi (che non può prescindere dalla regola dell’accordo) e la testualità (l’accordo delle parole, anche a distanza, è uno dei requisiti della buona formazione dei testi perché contribuisce alla coesione e alla coerenza del discorso).
Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente semplice (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte ad agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua. Si tratta, nel caso dello schwa, di un’imposizione artificiale, calata dall’alto, prescrittiva, non democratica e alla fine lesiva dei diritti di anziani e stranieri in fase di apprendimento dell’italiano come L2. D’altra parte, l’asterisco o lo schwa sono dei simboli, dei loghi, dal momento che manca la corrispondenza con un suono effettivamente realizzato nella espressione orale. Dal punto di vista linguistico quindi lo schwa non funziona così bene, ma la richiesta della sua introduzione discende, come scrive Debenedetti, dalla pretesa di far combaciare il codice linguistico con quello etico, per l’idea che la lingua debba essere posta al servizio delle identità di genere, proposto come paradigma morale assoluto anche da chi lo considera da una prospettiva fluida.
Quindi uno dei nodi del libro, che va molto al di là del problema sì-schwa/ no-schwa, è quello di porre l’accento sullo scambio fra un modello comunitario (la lingua è il sistema che vive nella bocca dei parlanti che decidono che nomi dare agli oggetti del discorso) e un modello che vuole indirizzare la lingua a forme più etiche, eliminando tratti di discriminazione o di denigrazione presenti nella lingua e, ahimè, nella società. Si tratta di una mediazione non facile e, come abbiamo visto, di un terreno insidioso. Siamo sicuri che forzare la lingua con pretese di etica e di difesa dei diritti delle minoranze non sia una delle forme di un “linguaggio autoritario” non meno sprezzante e intollerante di quello che vorremmo contrastare, capace di imporsi con la forza del conformismo culturale? Talvolta poi i risultati di tali sforzi linguistici sono perlomeno ambigui: pensiamo, uscendo fuori dai confini dettati dallo schwa, al passaggio dal termine negro, giustamente bandito dal linguaggio per le connotazioni sprezzanti di niger, a nero al più diffuso oggi afrodiscendente che finisce con l’inchiodare una persona a un passato coloniale risalente ad avi lontanissimi nel tempo. Questo termine oggi è sentito più neutro e corretto, ma siamo sicuri sia così?
Quando ci si sposta dall’arcipelago (includente, complesso, mescolato) della comunità a quello della identità si rischia sempre di scivolare e di farsi male. La traduttrice di Jonathan Franzen, Silvia Pareschi, ha raccontato a Chiara Valerio, nella trasmissione radiofonica L’isola deserta dell’11 giugno 2022, di aver proposto a una casa editrice di tradurre un autore nero e di essersi sentita rispondere che sarebbe stato meglio trovare un traduttore afrodiscendente. La sua risposta è stata ironica, ma non priva di lampi di verità: “Va bene, allora io mi prenoto per tradurre donne italiane di mezza età”. Se si tracciano i recinti tra chi appartiene a un gruppo e chi a un altro, se ognuno di noi decide come vuole essere chiamato senza venire a patti con la comunità parlante, se le differenze individuali hanno il sopravvento sulla tensione alla collettività, non si rischia forse di costruire una società basata su paradigmi identitari in contrasto e lotta tra loro? Siamo sicuri che quello dell’identità sia un buon parametro sociale? Che si possa avere a che fare o riconoscere solo ciò che ci riguarda o ci assomiglia o in cui ci riconosciamo? Mi sembra questo l’effetto di un pericoloso schematismo in cui siamo tutti immersi. Tornando alle nostre questioni: l’uso linguistico individuale deve scendere a patti con l’uso sociale per non diventare abuso. Tiziano Scarpa, nel brano che ha scelto Andrea Debenedetti per chiudere il suo libro, scrive: “Credere che le parole possano accomunare, rispettare, accogliere, contenere, includere, è un errore politico, perché è un’illusione. Nessuna parola è abbastanza rispettosa. Nessuna parola è abbastanza accogliente. Pensare di poter essere inclusi nelle parole è un abbaglio. Lo è per chiunque, di ogni genere e sesso e età e classe. Questa illusione è il contrario della politica”.