Il popolo è una moltitudine che canta
di Emanuele Conte
We, the people. Il celebre incipit della costituzione americana del 1787 apre la stagione costituzionale del popolo sovrano. Unico depositario della sovranità, il popolo americano detta in prima persona le regole dello stato: perciò precede lo stato, lo istituisce e lo regola.
Ma com’è possibile costituire il popolo come un soggetto capace di esprimere la propria volontà già prima che esistano le istituzioni destinate a rappresentarlo? Come può una moltitudine di individui diversi fra loro costituirsi in popolo e assumere le caratteristiche di un soggetto, anzi del soggetto per eccellenza, quello che giustifica le regole fondamentali della convivenza civile? In altre parole: se il popolo esiste come soggetto prima del diritto e dello stato, allora per pensarlo come soggetto unitario è necessario ricorrere a forme di astrazione diverse dal diritto.
È questo il motivo che ha spinto giuristi e filosofi a prestare crescente attenzione alla funzione costituzionale delle arti: quelle figurative innanzitutto. Sembra infatti che la soggettività unitaria del popolo sia un artificio, e che proprio le arti siano state convocate per crearla. Lo dimostra la pittura “costituzionale” di René David, preso come esempio dagli autori dei saggi usciti in un libro del 2018 sul ruolo giocato dall’arte nei processi costituzionali che fondano gli stati nazionali, dalla rivoluzione americana in poi. Ma la funzione di costituire il popolo in unità l’ha svolta soprattutto la musica. In un bel libro del 1999 sulla Nona di Beethoven, Esteban Buch osserva che il primo inno nazionale facilmente cantabile e diffuso fra la gente comparve in Inghilterra prima della metà del Settecento. God save the King fu composto nel 1745, ed ebbe un grande successo popolare a Londra e in tutto il paese. Riprendeva le parole dell’anthem che era risuonato nella cattedrale di Westminster a ogni cerimonia dell’incoronazione, fin da prima del Mille. La musica di God save the King la possono cantare tutti: non soltanto il coro che nella cattedrale “rappresenta” il popolo, ma il popolo vero e proprio, gli inglesi. E non soltanto nel momento rituale dell’incoronazione, ma sempre, ogni volta che i britannici saranno chiamati a proclamare l’alleanza fra popolo e corona che costituisce la base della monarchia costituzionale inglese. Un po’ come la celebre incisione del frontespizio del Leviatano di Hobbes: il corpo della nazione proclama la sua unità e la sua soggettività proprio quando riconosce la testa e le mani del sovrano. Era una tradizione prima giudaica e poi cristiana, che trovava il suo compimento nel perfetto equilibrio della costituzione britannica.
Il modello non vacillò nemmeno con la rivoluzione francese. Quando la rivolta scoppiò a Parigi, il 14 luglio 1789, fu accompagnata da un canto, Ça ira, che su una melodia elementare prometteva di impiccare gli aristocratici, ma non il re. Un anno più tardi, il 14 luglio 1790, per la prima grande festa dell’anniversario della presa della Bastiglia, il canto rivoluzionario non cessò di risuonare per tutta la giornata. Le parole furono adeguate all’occasione: Ça ira, tutto andrà bene: “seguiremo le massime del Vangelo del legislatore (… ) il vero catechismo ci istruirà (…) ogni francese si eserciterà a sottomettersi alla legge”. Una proclamazione di fede nello stato espressa in forma religiosa, come a confermare che la rivoluzione non era in realtà che il ristabilimento dei valori cristiani traditi dai nobili, ma non dal re.
Si sa che quest’equilibrio non era destinato a durare, a causa dell’ambiguità di Luigi XVI e delle tensioni internazionali che culminarono nella guerra contro l’alleanza delle potenze monarchiche europee. La guerra della Francia rivoluzionaria contro l’Austria scoppiò nell’aprile del 1792. Quando la notizia giunse a Strasburgo, dove l’esercito nemico era separato soltanto dal Reno, l’eccitazione popolare fu celebrata in una grande festa, il 25 aprile 1792, durante la quale risuonò ancora il Ça ira con le acclamazioni degli inesperti ed entusiasti volontari. Fu quella notte che Claude Joseph Rouget de Lisle, un giovane militare, musicista e poeta dilettante, compose il suo Chant de l’Armée du Rhin, adottato poco dopo dalle truppe di Marsiglia che entrarono a Parigi nell’agosto del 1792, determinando la vittoria della cosiddetta seconda rivoluzione, che doveva portare alla messa in stato d’accusa del re e alla sua esecuzione.
Il testo, portato sulle note di una melodia cantabile, ma ricercata, evoca il sacrificio dell’intera nazione per l’ideale di libertà e di uguaglianza che infiammava la Francia, e propone un’idea nuova di popolo fatto di “enfants de la Patrie”, fratelli fra loro, che si riconosce nel canto corale. L’unità del popolo non si trova più nell’acclamazione del re. Nasce ora nella condivisione degli ideali: la liberté proclamata nella dichiarazione dei diritti del 1789; l’égalité dichiarata nel preambolo della costituzione del 1791; la fraternité che nasce dal sacrificio militare e dalla condivisione di un ideale. Ideale tutt’altro che nazionalista: la Marseillaise incita i soldati francesi a risparmiare i militari nemici, “che controvoglia si armano contro di noi”. Violenza contro i “despoti sanguinari”, clemenza verso i fratelli costretti a combattere dall’odiato regime straniero. Fraternità internazionale, dunque, più che nazionalismo. Che si adattava bene alla nuova religiosità deista adottata dalla Repubblica dopo la condanna e l’esecuzione del re: la Marsigliese è davvero l’inno che costituisce il popolo francese e in un certo senso segna il suo destino repubblicano. Nel 1795, sesto anniversario della presa della Bastiglia, fu dichiarata inno nazionale. Messa da parte durante l’impero e la prima restaurazione, tornò a risuonare nelle giornate rivoluzionarie di luglio 1830. In quell’anno, fu Hector Berlioz a comporre una grandiosa orchestrazione, intesa proprio a far cantare tutte le componenti del popolo dei francesi: i soldati, le famiglie e le donne, fino ai bambini, che cantano l’ultima strofa piena di presagi di sacrificio per la patria.
Che lo stato liberale non possa fare a meno della liturgia è confermato da una vicenda tedesca più appartata, ma non meno eloquente. La vicenda riguarda un professore di diritto di Heidelberg, Anton Friedrich Justus Thibaut, famoso per esser l’autore di un pamphlet in favore della codificazione uscito nel 1814, contro il quale Friedrich Carl von Savigny reagì pubblicando nello stesso anno il suo celebre Beruf, cioè il saggio sul primato della scienza del diritto nei confronti della legislazione. Oltre a essere un giurista di prim’ordine, Thibaut era anche un appassionato musicologo, promuoveva la pratica del canto corale, in particolare della musica di Palestrina, destinata a svolgere un ruolo importante durante la stagione romantica tedesca. Per un giusnaturalista come Thibaut, la polifonia di Palestrina era un modello da eseguire e imitare poiché essa univa un’altissima qualità musicale a una cantabilità capace di rinsaldare il senso di appartenenza alla chiesa del popolo di Dio. La stessa appartenenza a una sola nazione germanica che le élite culturali tedesche cercavano per una popolazione ancora divisa politicamente. Per far dei tedeschi un solo popolo si doveva ricorrere agli stessi strumenti che il Concilio di Trento aveva predisposto per contrastare la Riforma tedesca: liturgie che facessero risuonare in armonia le voci diverse dei fedeli uniti in un solo corpo. Quando finalmente la Germania si riunì nel nuovo reich, l’attenzione alla liturgia laica della nazione non venne meno. In un capitolo del suo Il regno e la gloria, Giorgio Agamben rintraccia nella cultura tedesca del primo Novecento una piena consapevolezza di questo incontro fra tradizione liturgica, diritto e storiografia proprio sul terreno della qualificazione giuridica del popolo e dei suoi diritti costituzionali. Carl Schmitt, il teorico della costituzione di Weimar e poi della dittatura nazionalsocialista, pubblicò nel 1928 un saggio sulla decisione e la volontà popolare, nel quale suggerì che la vera matrice della soggettività del popolo fosse da ricercarsi nella liturgia cristiana, in quelle acclamazioni alle quali era dedicata la tesi di dottorato del giovanissimo Erik Peterson, uscita l’anno precedente. “Una ricerca fondamentale” – scrive Schmitt – perché mostra che una moltitudine di persone si costituisce giuridicamente come popolo quando “grida viva o abbasso, esulta o brontola, butta giù qualcuno e proclama capo qualcun altro, acconsente ad una deliberazione con una parola o nega questa acclamazione con il silenzio (…) In verità non c’è alcuno stato che possa rinunciare a tali acclamazioni. Anche il monarca assoluto ha bisogno della massa del suo popolo che faccia ala e gridi evviva. L’acclamazione è un fenomeno eterno di ogni comunità politica. Nessuno Stato senza popolo, nessun popolo senza acclamazioni”.
La liturgia assume valore costituzionale: pittura, scultura, architettura e musica si mobilitano per produrre l’effetto giuridico indispensabile per l’ordine repubblicano: far del popolo il soggetto titolare della sovranità. Solo quando canta insieme, acclamando sé stessa, una moltitudine si fa popolo. Nell’opera di teologi, giuristi, storici degli anni venti e trenta, Agamben ha rintracciato dunque la consapevolezza che il popolo sia una creazione della liturgia pubblica, e non viceversa. È proprio questa consapevolezza che ha caratterizzato i regimi totalitari della prima metà del Novecento, i quali hanno costituito liturgicamente i loro popoli, al fine di attribuire loro la volontà di legittimare un potere non mediato dalle istituzioni che configurano lo stato di diritto o la rule of law.
Ernst Kantorowicz, che aveva studiato i simboli del potere medievale prima della guerra, pubblicò nel 1946 un volume sulle Laudes Regiae, nel quale fra l’altro osservava che “le acclamazioni sono indispensabili per i regimi fascisti”. Tanto che da allora ogni liturgia del potere è apparsa sospetta. Negli ultimi anni, i governi democratici hanno proposto un ritorno al patriottismo, incitando ad esempio le squadre nazionali a intonare l’inno prima delle competizioni. Ora i giocatori cantano. Però da quel giorno di agosto del 1969, in cui la Fender Stratocaster di Jimi Hendrix maltrattò l’inno americano a Woodstock, la liturgia musicale nazionale non può più essere quella di prima.
I libri
Sensing the Nation’s Law. Historical Inquiries into the Aesthetics of Democratic Legitimacy, a cura di Stefan Huygebaert, Angela Condello, Sarah Marusek, Mark Antaki, pp. X-284, $ 129, Springer Berlin-Heidelberg, 2018
Giorgio Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, 2007
Ernst Kantorowicz, Laudes Regiae. Uno studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel medioevo, Medusa, 2006
James Garratt, Palestrina and the German Romantic Imagination. Interpreting Historicism in Nineteenth-Century Music, Cambridge UP 2002
Carl Schmitt, Democrazia e liberalismo, Giuffré, 2001
Esteban Buch, La neuvième de Beethoven. Une histoire politique, Gallimard, 1999
Erik Peterson, Eis Theos. Epigraphische, formgeschichtliche und religionsgeschichtliche untersuchungen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1926
Julien Tiersot, Les Fêtes et les chants de la Révolution française, Hachette, 1908
emanuele.conte@uniroma3.it
E. Conte insegna storia del diritto medievale e moderno all’Università di Roma3