Otto vittime in attesa di riconoscimento comunitario
recensione di Franco Pezzini
Giovanni Iozzoli
Il mostro di Modena
Otto femminicidi ancora irrisolti
pp. 203, € 18,
Artestampa, Modena 2020
«Alle volte tutto sembrava fuori sincrono, come se si stesse girando un film e intorno ci fossero solo comparse – un allestimento fittizio, precario. Forse è così che ci si sente da vecchi».
D’accordo, è possibile che ora sia morto. Ma non è solo l’assassino ad aver fatto torto alle otto donne ammazzate a Modena tra il 1985 e il 1995: tutte consumatrici di eroina e in gran parte dedite alla prostituzione; tutte giovani (la più matura trentaduenne), e i modi variano (sfondamento del cranio, coltellate, strangolamento…), ma con significative concordanze di elementi criminali. Data la marginalità delle vittime, “le investigazioni sono state in alcuni casi sciatte, in altri parziali, senza il pieno uso di tecniche e mezzi di indagine pure disponibili. Per tutti gli anni ’80, diversi sostituti procuratori si sono occupati dei singoli casi in modo frammentario”, e alcuni indizi importanti neppure presi in considerazione. Tutto finisce col consumarsi nell’idea frettolosa di omicidi occasionali legati al mondo della tossicodipendenza, e alcuni mancati colpevoli si alternano nei fascicoli sulle scrivanie di inquirenti e giornalisti, al massimo con “qualche non luogo a procedere”. Con un’acquiescenza collettiva al fatto che simili vite siano naturaliter esposte: un’acquiescenza, nutrita anche dalla resistenza diffusa a vedere il lato oscuro di certo benessere, che aveva impedito di mettere a fuoco – e poi di ascoltare, quando qualcuno aveva sollevato il problema – come potesse ravvisarsi un unico soggetto (individuale o collettivo) dietro i delitti. A sollevare la tesi di un serial killer o almeno di “un’unica regia e una medesima intenzione”, con fiuto da vecchio cronista, è Pier Luigi Salinaro in una serie di articoli d’epoca su “La Gazzetta di Modena”: e ora a distanza di tanti anni a riprendere i fili di una vicenda che non si esaurisce affatto nell’ottica del cold case, è Giovanni Iozzoli, scrittore campano che da un quarto di secolo vive a Modena e svolge attività sindacale, appassionato e sensibile alla dimensione sociale di questi crimini. Per due suoi (ottimi) romanzi precedenti, La vita e la morte di Perzechella (Artestampa, 2016) e L’Alfasuin (Sensibili alle foglie, 2018), cfr. rispettivamente “L’Indice” 2017, n. 1 e 2019, n. 6.
Ciò per dire: i lettori non trovano in Il mostro di Modena una ricostruzione classicamente poliziesca, ma piuttosto un ampio e dettagliato affresco e un tentativo d’incalzare con qualche libertà e con empatia profonda (ma asciutta da sbavature retoriche) la vicenda reale. Insomma un libro importante, sia quale monito a che fatti del genere non si ripetano e magari si chiariscano (si spera in una riapertura delle indagini da parte della Procura), sia come documentata riflessione su una serie di dinamiche sociali che trovano ricadute anche politiche. Difficile che ormai, sugli otto delitti irrisolti, possa emergere qualche verità puntuale: anche se è pur vero che la sottrazione in quasi tutti i casi della borsetta con gli effetti personali, per complicare il riconoscimento o forse per procurare al killer un macabro souvenir del gesto, potrebbe in futuro veder riemergere tali materiali nel perimetro di vita di qualche insospettabile. L’ipotesi di Salinaro di interpretare in chiave esoterica i delitti – unendo i punti di ritrovamento dei corpi su una mappa si individuerebbe un pentacolo – può richiamare quanto sospettato a suo tempo per Jack the Ripper: per quanto romanzesca e in fondo grottesca, tale soluzione potrebbe attagliarsi alle fantasie di basso livello del tipo di assassino o di assassini (è possibile pensare a più d’uno) in vista di presunte utilità di magia nera. Per contro in un’appendice criminologica di Giulia Vaccari si considera più plausibile “la tesi dell’omicida seriale di matrice sessuale”. Certo uno che (sintetizza Iozzoli) “Non ha alcuna voglia di farsi arrestare. Non fa niente per agevolare gli inquirenti”.
Ma al di là del caso in sé, quel che preme qui sottolineare è la qualità del testo. In primo piano, a sintetizzare ciò che può star dietro all’intera serie di crimini, è la vicenda di Graziella Bertacchini – ennesima ragazza sparita, stavolta in apparenza a Londra, da una Modena dal doppio fondo, di benessere distratto e di paria, i tossici, che “sporcano” la città – e dei suoi familiari: una vicenda immaginaria, ma non troppo, con un anziano padre che non si rassegna alla sparizione e va a incalzare anche il vecchio Salinaro, ma è in qualche modo immagine lui stesso del binomio di benessere d’affari & distrazione a monte della deriva di Graziella. Con la sua scrittura ricca e intensa, Iozzoli ricostruisce a posteriori lo sfilacciarsi di una famiglia: esamina il mondo di Bertacchini con profonda empatia e straziata pietà, mostrandolo mentre si trascina in dolorosa catabasi tra la moglie psichicamente implosa, i vecchi testimoni del caso (più o meno senescenti o provati dalla vita) che lo fronteggiano con imbarazzo, e il mondo buio a cui la figlia si era avvezzata. E in quelle ragazze piegate dall’eroina, vessate da figure losche di “tutori dell’ordine” (è di quegli anni lo scandaloso caso, senza paragoni in Europa, della Uno Bianca, che ancora dovrebbe porre qualche domanda) e tuttavia capaci di qualche temeraria vitalità, finirà col riconoscere figlie un po’ sue, come Graziella. Scrive Iozzoli nella postfazione:
Non sappiamo, naturalmente, se il killer sia stato un unico assassino seriale. Non sappiamo nemmeno se la riapertura delle indagini promossa dalla Procura produrrà qualche risultato, dopo tanto tempo. Quello che è certo è che quelle otto ragazze meriterebbero oggi una qualche forma di “riconoscimento” – nel senso letterale del termine: essere ri-conosciute come figlie legittime di questa comunità e del periodo storico duro e complicato in cui vissero e trovarono la morte. Il femminicidio non è orrendo solo quando colpisce una madre di famiglia o una fidanzata – non esiste un femminicidio “minore” o tollerabile, a seconda delle scelte di vita delle vittime. Non sono esperto in ritualità civiche, ma sarebbe bello se la città trovasse il tempo e il modo di dedicare qualcosa alla memoria di queste ragazze. Un risarcimento minimo, a queste figlie di Modena, per essere state considerate per lungo tempo “figlie di nessuno”.
La seconda, legittima libertà che Iozzoli si concede – la forma romanzo permette anche questo tipo di esplorazione virtuale – riguarda la personalità dell’assassino, lui stesso in fondo figlio legittimo della città con i miti di una crescita e i “danni collaterali”: un ritratto (“Lui questo era sempre stato: uno sperimentatore”) solitario, malinconico e ossesso dai demoni di un certo tipo di società. Il prefinale al pronto soccorso, con i vecchi Bertacchini e l’assassino ormai condannato da un tumore al pancreas, appare emblematica della tardività sconsolante della giustizia umana e del sapore amaro lasciato dalla vicenda. Ma il ritratto più vivido presente in questo romanzo documentatissimo e tanto ben scritto è in fondo quello di Modena, com’era stata e come stava diventando: sia sul piano strutturale e urbanistico – con la zona, ora parte del salotto buono cittadino, al tempo popolata da prostitute non professioniste come Graziella e le sue amiche, considerate fastidiose importune come gli altri tossici – che su quello sociale, con il fiume di eroina affluito tra gli anni settanta e ottanta dopo la fine delle utopie, e un’Italia provinciale, opulenta e perbenista, del tutto impreparata ad affrontarlo.