Una inconoscibile storia cruciale
recensione di Marco Viscardi
Fulvio Delle Donne
Tredici contro tredici
La Disfida di Barletta fra storia e mito nazionale
pp. 176, € 16
Salerno Editrice, 2020
La calata di Carlo VIII in Italia nel 1494 è forse il trauma più violento della storia italiana: il re di Francia invase a penisola per rivendicare i suoi diritti sul Regno di Napoli, alla testa di un esercito dotato della più terribile delle innovazioni tecnologiche: l’artiglieria. Opporsi al passaggio dei francesi, voleva dire esporsi alla distruzione, come accadde a Fivizzano e Serzanello. Il terrore paralizzò i potenti italiani che preferirono arrendersi prima di combattere e così Carlo ebbe Napoli senza sparare un colpo e tornò in Francia, sfuggendo alla trappola di Fornovo. Le sue truppe avevano lasciato una malattia che da loro prese il nome di mal francese. Iniziava un trentennio in cui l’Italia fu campo di battaglia fra Francia e Spagna per il possesso della penisola, e in questo contesto la Disfida di Barletta (13 febbraio 1503) è un episodio minore, tristemente insignificante. Tredici campioni italiani, soldati di ventura al soldo della Spagna, sfidarono e vinsero altrettanti francesi, colpevoli di averne messo in discussione l’onore militare: una vicenda appena degna di nota che rapidamente viene caricata di valori e significati. Del fatto in sé si sa pochissimo: nel giro di poche settimane questa zuffa fra ventisei uomini divenne sintesi di più profonde contrapposizioni. Non solo fra differenti modi di combattere – con gli italiani fieri della tecnica napoletana del tavoliere, che consiste nell’attendere i nemici immobili suoi propri cavalli – ma anche, nel racconto degli storici contemporanei, fra contrastanti visioni del mondo: latinità vs. barbarie, meridione vs. settentrione. Il mito di Barletta esprime la più radicale delle contrapposizioni: noi vs. loro. Se c’è un paradosso della Disfida è proprio la sproporzione fra la nostra conoscenza dei fatti e la continua rielaborazione in chiave di orgoglio nazionale, di riscatto illusorio di una dignità guerriera ormai persa. Di quello che accadde davvero sappiamo pochissimo. Le fonti non concordano neppure sull’identità dei protagonisti: abbiamo due sole certezze, il nome del capitano e quello dell’unico italiano che combatté con i francesi: Ettore Fieramosca da Capua e Grajano da Asti. Quello della disfida è uno strepitoso racconto che presenta tutti gli elementi della grande epica popolare: l’offesa e il riscatto, il debole che si impone sul forte, il traditore che rinnega la voce del sangue e combatte per gli stranieri. La realtà sembrava contorcersi e chiedere di trasformarsi in racconto, essere distorta e riformulata dalla finzione, come dimostra il libro di Fulvio Delle Donne.
Già due settimane dopo il fatto d’armi, l’umanista meridionale Antonio de Ferraris, detto il Galateo, lo descrive come una lotta fra gli italiani, eredi della libertà romana, e gli oltraggiosi, superbi francesi. Questa linea di esaltazione, ora della nazione napoletana ora di quella italiana, continua per tutto il Cinquecento. Solo Guicciardini, nella sua Storia d’Italia, dopo aver esaltato il valore delle armi, deve riconoscerne la sterilità mentre l’Italia assisteva alla propria spoliazione spartizione. «Quei conflitti, – dice Delle Donne, – assieme all’equilibrio degli stati italiani, avevano infranto anche la fede nel ruolo della virtù umana, che oramai mostrava tutta la sua inefficacia nell’opporre resistenza ai capricci dell’imprevedibile fortuna. E se la storiografia tentava di comprendere quanto era avvenuto, provando a ricostruire le vicende per trovarne una ragione, la poesia eroica […] cercando consolazione nella rielaborazione del passato più recente, lo riscriveva, facendo più fragorosamente risuonare l’orgoglio patriottico di una nazione che esisteva solo nella finzione letteraria». Quanta disperazione e quanto bisogno di consolazione occorrono per trasformare l’evento in una parabola?
I fatti di Barletta ebbero, notoriamente, una ripresa nel secolo che intercorre fra gli anni trenta dell’Otto e del Novecento, fra il grande, melodrammatico, romanzo di D’Azeglio (Ettore Fieramosca, 1833), portato sugli schermi da Alessandro Blasetti agli esordi del cinema fascista, mentre i ras del regime pugliese approfittavano della progettazione di un monumento celebrativo per regolare antichi conti in sospeso e questioni di potere. Ciò che rende mirabile questo libro è la capacità dell’autore di intrecciare continuamente la ricerca storica alla lezione sul metodo, ragionando sulla labilità dei testimoni e sulla tentazione umanista, e non solo, di preferire il bel verosimile all’arido vero. Tredici contro Tredici ci permette di vedere lo storico al suo tavolo di lavoro intento a risolvere i problemi della sua disciplina. «La narrazione della storia non coincide con la storia stessa e non può certamente fare a meno di strutture espositive che riorganizzino il passato in maniera più o meno sistematica o lineare. Dunque, se la storia spogliata della sontuosa veste mitopoietica si presenta nuda e povera, va tenuto sempre ben presente che il mito privato della profondità storica, isolato e decontestualizzato, assurto a mero simbolo, può generare in falsificazioni aberranti, in manipolazioni artificiose della memoria che giustifichino la deriva del presente». La storia, come è stato detto, non può spogliarsi del racconto che mette in prospettiva gli avvenimenti narrati, li dispone gerarchicamente, impone una luce ai fatti. Il racconto contiene la storia, a volte la costringe come una camicia di forza, ma esisterebbe senza questa strettoia? È possibile un atlante in scala 1:1 del mondo? Se pure fosse, e ammesso che non ne restassimo schiacciati, come potremmo guardarlo senza smarrirci? E quante volte l’attualità ha preso il mito decontestualizzato per farne oggetto di propaganda?
In tempi in cui la storia come narrazione ha grande successo di pubblico, Fulvio Delle Donne ci porta nei riverberi del mito, ci induce a farci domande, a guardare dentro il laboratorio storiografico. Tredici contro Tredici non è il primo libro ad affrontare questi temi, ma lo fa tenendo perfettamente in equilibrio le parti, senza che la teoria corroda la scrittura, sempre acuta e intelligente. Tanto che può permettersi di chiudere col Soldato di Ventura di Pasquale Festa Campanile del 1976, in cui Bud Spencer è un coriaceo Fieramosca che recita una volta tanto con la sua voce ed Enzo Cannavale è Bracalone, che per tutto il film registra su un manoscritto ogni minimo evento che gli accade intorno per poi confessarsi analfabeta. Il suo resoconto è in realtà un insieme di capricciose linee curve. Linee serpentine come quelle di Sterne contro l’opprimente storia monumentale. La scrittura, dice il Renzo manzoniano, è una birberia, la falsa scrittura di Cannavale/Bracalone sbeffeggia la serietà e la retorica, perché in fondo ha ragione il refrain della sigla finale della pellicola, ricordato con gusto da Delle Donne, «Ma va’ che la storia quanto meno ne sa / più snello, più bello, più prode ti fa». Sulla lapide funebre di Fieramosca, si leggeva che Ettore sarebbe stato pianto dal fiume Volturno «Tanto a lungo […] quanto ininterrottamente scorreranno le tue azzurre acque». Oggi le acque del Volturno scorrono ancora, più o meno azzurre, ma la stele dell’eroe è andata distrutta…