Incontri etnografici con gli alieni
di Francesco Remotti
Ernesto De Martino
La fine del mondo
Contributo all’analisi delle apocalissi culturali
a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio
pp. XVI–614, € 34,
Einaudi, Torino 2019
Niente di più sorprendentemente attuale che la riedizione di La fine del mondo. Cosa direbbe oggi il suo autore, il quale nei primi anni sessanta del secolo scorso avvertiva i motivi di angoscia di un mondo da poco uscito dagli orrori della seconda guerra mondiale e sotto la minaccia incombente di una guerra ancora più devastante, come quella nucleare? Un autore, che nel suo Il mondo magico (Einaudi, 1948) aveva ampiamente scritto di sciamani, come reagirebbe di fronte a uno sciamano in carne e ossa, il quale rimprovera ai bianchi, “popolo della merce”, di avere una vista corta e oscura e di provocare con il loro comportamento distruttivo la “caduta del cielo”, appunto la fine del mondo? (cfr. “L’Indice” 2019, n. 1: Davi Kopenawa e Bruce Albert, La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, Nottetempo, 2018). Sarebbe disposto De Martino a vedere ridotta la civiltà occidentale a una sorta di mostro storico che ha depredato e continua a depredare le risorse della terra? E beninteso, non solo le risorse naturali, ma anche le risorse umane, quelle forme di umanità che egli faceva rientrare nella categoria dell’etnos, dell’“umanamente alieno”? O non interpreterebbe questa visione come un rigurgito di spaventoso irrazionalismo, quello che appunto proviene dalle profondità storiche dell’umanità, da quel mondo magico, di cui gli sciamani sono appunto i rappresentanti più temibili e pericolosi?
Prima di attualizzare De Martino, farne cioè un interprete (a cui ispirarsi) della crisi dell’umanità contemporanea, proviamo a vedere come egli sistemava la questione di noi e loro. La fine del mondo sarà anche – e in effetti è – un libro incompiuto, in qualche modo tormentato. Ma su questo problema (il rapporto tra noi civiltà occidentale e ciò che egli chiamava etnos) De Martino ha sempre mantenuto la sua convinzione di fondo e, come afferma Massenzio nella sua Introduzione, questa convinzione trova in La fine del mondo la sua versione definitiva: si tratta del paragrafo L’umanesimo etnografico (cap. IV della nuova edizione) e della teoria dell’etnocentrismo critico. Per De Martino l’etnologia non è uno studio marginale e secondario. Essa è infatti la realizzazione di ciò che egli chiama “l’incontro etnografico” tra la civiltà occidentale e l’etnos, gli altri, il resto dell’umanità. De Martino parla espressamente di “etnocentrismo”, perché l’etnologo non può in nessun modo collocarsi al di fuori della sua civiltà, impiegare nella sua analisi categorie che non siano quelle della civiltà europea. Ma c’è un presupposto di fondo, che va subito chiarito, ossia che “solo l’occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico”: gli “alieni” – come vengono tanto spesso denominati da De Martino – non sono altro che gli oggetti dell’indagine etnologica. Ma perché allora l’incontro etnografico? Qual è la sua motivazione profonda? Incontrando l’altro, si è costretti a volgere uno sguardo anche sull’Occidente. Le categorie dell’Occidente non vengono smentite: vengono anzi applicate; sono però applicate in maniera “critica”, conoscendo ormai da vicino ciò che è loro più alieno. L’alieno per De Martino rimane pur sempre il mondo magico, l’irrazionale; per cui l’incontro etnografico alla fine si risolve in un’assunzione critica e consapevole della razionalità occidentale e in un aiuto a scorgere nell’Occidente, nella sua storia antica o recente, le scorie di irrazionale (come per esempio il nazismo) che emergono dalle profondità più oscure. Le altre società sono dunque al servizio di questa impresa di redenzione e di purificazione dell’Occidente: l’etnologo contribuisce a realizzare una “consapevolezza antropologica più ampia”, non già perdendosi nella conoscenza delle altre società, ma “ponendo in modo critico e deliberato la storia dell’occidente al centro della ricerca confrontante”.
E forse che le cose non sono andate in questo modo? Forse che nella storia mondiale l’Occidente non si è posto esattamente al centro? Non ha forse ragione De Martino nell’invitare l’etnologo a studiare in modo consapevole questa centralità? Qui sta il punto: la centralità dell’Occidente per De Martino non è soltanto storica; è anche e soprattutto antropologica. Pur con tutte le catastrofi storiche da esso provocate, l’Occidente rimane l’unico detentore di una razionalità che occorre sempre fare valere nei confronti del “mondo magico”. In De Martino è rimasto intatto il convincimento che l’Occidente non possa essere collocato “in mezzo” agli altri, come se fosse una modalità, una via tra le altre, e così le altre culture non hanno potuto mai guadagnare una dignità antropologica, tale da potere dialogare con “noi”, meno che mai insegnarci come si può vivere in questo mondo. De Martino (da sensitivo qual era) avvertiva i sintomi della fine del mondo, ma prigioniero dello schema “Noi al centro / gli altri umanamente alieni”, ha incontrato molte difficoltà a formulare un’ipotesi più salda e credibile degli accenni di cui sono ricchi le sue note e i suoi appunti.
francesco.remotti@unito.it
F. Remotti è professore emerito di antropologia culturale all’Università di Torino