L’alterità degli antichi
di Dino Piovan
Emanuele Stolfi
Come si racconta un’epidemia
Tucidide e altre storie
pp. 141, € 16,
Carocci, Roma 2021
Che senso ha rileggere gli antichi nel mezzo di un’epidemia? Anzi, di una pandemia che ha sconvolto le nostre vite come mai prima? Le vite degli adulti come dei bambini, dei giovani come dei vecchi. Una pandemia capace di condizionare qualsiasi ambito della società, dall’economia allo sport, dalla scuola alla politica, di confondere fino a sovvertirli gli spazi del pubblico e del privato. Forse, in pagine vecchie di duemila e più anni, qualcuno può sperare di trovare la conferma che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, che in fondo queste cose sono sempre successe; i testi antichi, insomma, sarebbero depositari di verità atemporali. Oppure, in quanto antichi, svelerebbero una verità originaria di cui tutto ciò che viene dopo è filiazione e degenerazione, secondo quel mito dell’inizio che ha affascinato generazioni di pensatori e studiosi delle più varie discipline, dalla filosofia politica alla storia delle religioni.
Non a queste consolazioni o a questi miti pensa Emanuele Stolfi in Come si racconta un’epidemia, che anzi mette in guardia sia dalle apologie dell’antico sia dal “presentismo del presente” (la formula è di François Hartog), la tendenza a schiacciare ogni fenomeno sulla immediata contemporaneità, scartando con fastidio ogni dimensione storica. Quei testi vanno riconosciuti come una tradizione perché antichi, certo, ma soprattutto perché la letteratura, anzi, le letterature successive hanno continuato a rileggerli, interpretarli, rivisitarli; ma la tradizione, ogni tradizione, se ridotta a galleria di monumenti mummificati, può diventare muta, tramutarsi in cosa inerte. Un pericolo che si può evitare se si mette a fuoco l’alterità degli antichi, che stimola a confronti non scontati, specialmente se si riesce a cogliere la pluralità delle visioni che essi sanno esprimere, anche a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, oltre gli stereotipi di una classicità sempre uguale a sé stessa.
Questa è appunto la via intrapresa da Stolfi, tra Omero, Sofocle, Tucidide e Lucrezio. Punto di partenza è Tucidide: all’interno del racconto della guerra del Peloponneso che si combatté tra Atene e Sparta nel V secolo a.C., lo storico dedica una sezione importante del libro delle sue Storie all’irrompere della peste in Attica, nell’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.). L’epidemia si diffonde velocemente anche per le particolari condizioni del momento: tutta la popolazione dalle campagne si trova ammassata in città o lungo le mura, a causa della strategia periclea che evita il combattimento aperto; il nesso tra sovraffollamento e diffusione della malattia, per noi così chiaro, non viene invece sottolineato da Tucidide, probabilmente per non avallare le critiche dei concittadini a Pericle. Gli effetti della peste, se di peste si tratta (gli studiosi sono tuttora incerti tra varie ipotesi), sono da subito molto pesanti, addirittura sorge il sospetto di un complotto ordito dai nemici spartani con l’avvelenamento dei pozzi; ma sono trame a cui lo storico non presta alcun credito. La sintomatologia del morbo è invece descritta con accuratezza da Tucidide e soprattutto le sue conseguenze sulla società ateniese: ogni rimedio sembra inutile, lo scoraggiamento sfocia nella disperazione, molti muoiono in solitudine, abbandonati dai parenti timorosi del contagio. Vengono travolte anche le regole della vita civile, con cadaveri rimasti insepolti o ammucchiati nei santuari; e il disordine si insinua nella vita quotidiana. È indubbiamente un quadro fosco e amaro, che ricorda lo sconvolgimento delle guerre civili, ritratto da Tucidide nel libro III.
Stolfi sottolinea le affinità, di metodo e di lessico, in queste pagine più evidenti che altrove, tra l’indagine tucididea e la coeva medicina ippocratica, connotata da un empirismo e un razionalismo inediti per quell’epoca; tanto più evidenti se si tiene presente che Tucidide non è affatto il primo scrittore a raccontare un’epidemia ma che con un’epidemia si apre l’Iliade, vale a dire la stessa tradizione letteraria greca. Si tratta della peste con cui Apollo colpisce il campo dei greci per punire Agamennone degli oltraggi subiti dal suo sacerdote, Crise, e che diventa la causa dell’aspro conflitto tra il capo dell’esercito acheo e Achille; una peste, insomma, che risponde a una logica di ritorsione, di vendetta divina. Nell’Iliade la malattia compare come fenomeno religioso e anche politico, vista la responsabilità di Agamennone, come sarà anche nell’Edipo re di Sofocle a distanza di qualche secolo. La tragedia si apre con i cittadini di Tebe che chiedono aiuto al loro re Edipo per fermare il male che li sta decimando. Se è vero che il dramma sarebbe stato rappresentato nel 425 a.C. (ma altri propendono per il 413), sarebbe difficile non pensare a un riflesso della peste di pochi anni prima, descritta da Tucidide. Anche in questo caso il morbo rappresenta una punizione divina per l’assassinio, rimasto impunito, del re Laio, padre di Edipo, che cerca la causa della sciagura avviando una caccia al colpevole con un atteggiamento empirico-razionalista non dissimile da quelli adottati dai medici ippocratici e dallo storico. Si sa come va a finire l’indagine di Edipo: il colpevole è l’investigatore stesso, la causa del male è il re che voleva curarlo; la tragedia si conclude con lo scacco totale di chi credeva negli strumenti forgiati dalla razionalità “illuminista”. Innegabile il divario con Tucidide, che è invece la fonte di Lucrezio per la descrizione della peste di Atene al termine del sesto e ultimo libro del De rerum natura. Il poeta latino riprende lo storico greco spesso alla lettera, tuttavia nuova è la cornice in cui il fenomeno è inserito. Per Lucrezio, che vuole diffondere il credo di Epicuro, si tratta di una malattia che ha solo cause naturali, il nesso tra guerra e lo straordinario affollamento della città si perde, l’attribuzione agli dèi è inconsistente; centrale in lui è la lotta contro la religio, la “superstizione”, che lo spinge a destoricizzare l’episodio del 430 a.C. per farne un paradigma della precarietà della condizione umana.
Per Stolfi, tre sono i temi che legano questi racconti, pur con modalità ed enfasi molto diverse tra loro: quello della causa del male e delle responsabilità; del rapporto tra la comunità e chi la guida; delle risposte della medicina. Di ognuno mette in luce analogie e differenze con l’ultimo biennio che abbiamo vissuto: se la causa non viene più cercata, come negli antichi, nell’alternativa dèi/natura, tuttavia è proprio quest’ultima ad apparire, in tante reazioni e tentativi di spiegazione, quasi come una divinità oltraggiata e vendicativa, sintomo della ricerca spasmodica di una causa da assegnare alla sofferenza; risaltano poi le aspettative odierne nei confronti di chi guida la comunità, impensabili nei contesti antichi, storici o letterari che siano; e risalta anche l’interazione tra politica e medicina, del tutto assente persino in Tucidide, così vicino alla ricerca medica del suo tempo. Come assente è la dimensione economica, così assillante nel presente. Gli antichi sono e restano altri da noi. Ma proprio perché altri, non sembrano sostituibili nell’interrogare noi stessi su quello che siamo.
dinopiovan@gmail.com
D. Piovan è saggista e docente di lingue classiche