Questione di generi
di Grazia Paganelli
Giunti quasi a metà di questo 72esimo Festival di Cannes (in cui la vivibilità è inversamente proporzionale all’alto livello dei film, perché i controlli a tutti gli ingressi finiscono per rallentare le code a fronte di un’organizzazione logistica inefficace e irritante), possiamo farci un’idea più concreta di quali saranno le visioni destinate ad accompagnarci nei prossimi mesi. La rivisitazione del genere resta una tendenza importante nel cinema contemporaneo, che non solo ne sfiora le regole, ma le riaccredita attraverso uno sguardo che molto esprime dell’idea di cinema dei singoli registi e della sua percezione nelle diverse cinematografie. Un esempio è rappresentato dal film della regista austriaca Jessica Hausner Little Joe, in cui la fantascienza distopica dialoga perfettamente con il dramma ‘politico’, se così si vuole chiamare quel genere che si sofferma sulle relazioni interpersonali e sull’ossessione dell’uomo di manipolare le idee altrui. Pubblico e privato non fanno differenza per Hausner. Lo strato umano su cui costruisce la sua storia è composito e tutt’altro che schematico, all’esatto opposto del rigore geometrico della forma. La ricercatrice Alice sta testando in laboratorio gli effetti di una nuova pianta in grado di dare la felicità. Presupposto che già nasconde, nella sua promessa, i germi di quella normalizzazione contro cui si sono fatte innumerevoli rivoluzioni. Ma qui l’inganno è subdolo e arriva proprio da questo fiore bellissimo, che reagisce alle sollecitazioni, sbocciando e regalando il suo profumo a chi lo ama e si prende cura di lui.
Senza mai abbandonare la geometria esasperata, esaltata dal contrappunto della musica (uno stridio inquietante e continuo), Little Joe, dal nome assegnato alla pianta, sfiora il thriller tutto cerebrale che si consuma nei corridoi e nelle stanze bianche del laboratorio. Come i baccelli velenosi della fantascienza anni Settanta, si deve lottare contro un nemico imprendibile, ma qui non c’è nessuno a combattere davvero, perché ogni tipo di opposizione viene spenta dalle spore del fiore con l’arma della normalità, anzi, con l’obbligo di una felicità materiale, che poi altro non é se non un atteggiamento di distanza che allontana dalle passioni. Ecco il punto che più risuona come un avvertimento: anestetizzati e omologati, agli ‘infetti’ spetta il compito di sostenere la conquista dell’ordine e della sottomissione in nome di una sopravvalutata tranquillità. Come dire che la complessità non é più un valore ma un ostacolo al bene collettivo.
Ma il genere può anche avere ricadute ‘disimpegnate’, come accade nel settimo film da regista del rumeno Corneliu Porumboiu La gomera o in The Wild Goose Lake del cinese Diao Yinan. Nel primo caso si tratta di un raffinatissimo gioco di tradimenti e colpi di scena di un poliziotto che si lascia corrompere da una banda di trafficanti di droga in cambio di una montagna di soldi. Il genere qui esaurisce se stesso come obiettivo principale, spinto alla sovraesposizione da una sceneggiatura costruita ad arte e realizzata con maestria, dove il gioco del linguaggio (quello cinematografico con le innumerevoli omaggi ai classici del noir) e quello della finzione (l’antica lingua dell’isola di Gomera, appunto, il siblo, usata dai gangster come codice segreto per comunicare indisturbati).
Più classico che mai, The Wild Goose Lake rispetta l’ambientazione notturna, piovosa e claustrofobica del genere, distillando citazioni continue, ma mai esibite, nel tessuto elegante di questa corsa alla sopravvivenza di Zenong, capobanda coinvolto per errore in una lunga serie di misfatti. Ricercato dalla polizia e dagli innumerevoli antagonisti, Zenong ci accompagna in un viaggio di geografie inattese, ipniotiche e lievi, nonostante il ritmo incassante della fuga. Al limite del manierismo, Diao Yinan costruisce il suo film come una danza, sospesa nei colori pop di un caotico non-luogo, come fosse un musical fiammeggiante, perso nella vertigine temporale.