Considerazioni di fine festival
di Grazia Paganelli
Quello che si è chiuso sabato, con una premiazione piena di sorprese, è stato un festival tra i più ricchi degli ultimi anni, che ha proposto, nelle sezioni ufficiali e non, opere in grado di esprimere la direzione del cinema mondiale contemporaneo, i sentimenti e le tendenze che sembrano legare le nuove produzioni tra Europa, Asia e Americhe. Soprattutto l’Europa, verrebbe da dire, dal momento che tra i ventuno film in concorso ben quindici erano europei, anche se poi è alle cinematografie dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina che questo festival ha meritatamente reso omaggio.
La giuria, presieduta dall’argentino Alejandro Inarritu, era composta soprattutto da registi che hanno avuto con il Festival di Cannes un rapporto importante: Alice Rohrwacher, Enki Bilal, Yorgos Lanthimos, Kelly Reichardt, Robin Campillo, Mainouna N’Daye e Elle Fanning hanno tutti già calpestato il tappeto rosso almeno una volta con film da loro diretti o interpretati, e nel loro palmarès si intuisce una direzione precisa, l’idea di allargare lo sguardo a linguaggi meno codificati e a progetti direttamente connessi con le urgenze del nostro reale. E così la Palma d’Oro è stata assegnata a Parasite di Bong Joon-Ho, il film che più di tutti ha un sapore universale, storia di una famiglia costretta a vivere di espedienti in un seminterrato inospitale, senza lavoro e senza prospettive. Quando al figlio Ki-woo viene offerto un lavoro come insegnante privato di inglese dell’adolescente rampolla di ricca famiglia, le cose iniziano a cambiare e il divario esistente tra i poveri e i ricchi sarà portato a conseguenze inimmaginabili, come se una serie di veli iniziassero a cadere, per mostrare, sorpresa dopo sorpresa, sviluppi imprevedibili di una realtà fatta di vertiginosi disequilibri. Bong si è raccomandato di non svelare i dettagli importanti dell’intreccio, perché ogni colpo di scena avrà il suo peso negli occhi dello spettatore e ogni sorpresa il suo senso nell’economia generale del film, per questo non ci dilunghiamo oltre, sapendo che il regista coreano gode di un seguito di estimatori soprattutto tra il giovane pubblico cinefilo.
Riconoscimento importante di questo 72esimo Festival di Cannes è rappresentato dal Gran
Premio ad Atlantique, primo film di finzione della senegalese Mati Diop, nipote dell’indimenticabile poeta Djibril Diop Mambety e figlia del musicista Wasis. Film popolato di fantasmi, quelli dei poveri migranti inghiottiti dal mare, che tornano per cercare vendetta o per portare a termine cose lasciate aperte. Dakar non ha nulla di esotico, anzi, viene ritratta nella sua essenza di città divisa dalla ferita della disuguaglianza, da una post-colonizzazione aggressiva che lascia sabbia nelle mani dei giovani e tanti compromessi da crearne dei prigionieri. Nessuna retorica, ma tanto cinema e tanta Africa, con i suoi tempi discontinui e la tensione magnifica verso il melodramma. Non diverso nei modi, nell’idea e nell’efficacia, dal brasiliano Bacurau, diretto da Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles (gli stessi di Aquarius), che ha meritato il Premio della Giuria (ex aequo con Les misérables di Ladj LY), allegoria di una lotta reale e leggendaria per la libertà, nei luoghi che sono stati teatro del cinema politico e più che mai attuale di Glauber Rocha.
Corretti e meritati i restanti premi (a parte, forse, quello per la regia a Le jeune Ahmed di Jean-Pierre e Luc Dardenne): la miglior sceneggiatura a Celine Sciamma per lo splendido Portrait de la jeune fille en feu e la menzione speciale a Elia Suleiman per It Must Be Heaven.