Il cinema e il potere del racconto
Tra i film più sorprendenti della 74esima edizione del festival di Cannes ci sono opere che hanno affidato alla parola il compito principale, facendo del racconto uno strumento di guarigione, di conoscenza e di rinascita, oltre che di rinnovamento. Film letterari, di dialoghi serrati con cui esaminare la realtà o storie che generano storie e potrebbero andare avanti all’infinito. Questo vale per Drive My Car di quel Ryusuke Hamaguchi, nuova stella del cinema giapponese, che in pochi anni ha ottenuto alcuni dei più prestigiosi premi nei festival internazionali (Menzione speciale a Locarno nel 2015 con Happy Hour, Gran Premio della Giuria a Berlino nel 2021 con Wheel of Fortune and Fantasy). Ispirato al racconto omonimo di Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne, Drive My Car è la storia di un attore di teatro che perde la moglie per una improvvisa emorragia cerebrale, proprio dopo aver scoperto che lei lo tradisce. Pur non dubitando mai del suo amore per lui, si chiude in un silenzio profondo fino a quando un lungo viaggio ad Hiroshima lo metterà in una condizione in cui gli sarà più facile confrontarsi con la verità di ciò che è davvero accaduto alla sua vita. Chiamato a dirigere una versione poliglotta di Zio Vanya, e costretto ad accettare un autista per i suoi spostamenti, si innesca lentamente un meccanismo di reciprocità tra i due, che passa dal silenzio al racconto, dalla distanza alla confidenza. Proprio lui che racconta sui palcoscenici centinaia di storie, si trova ora a raccontare la sua in un atipico road movie di straordinaria levità.
Due registi alle prese con la scrittura dei rispettivi film, è la vicenda al centro di Bergman Island della regista francese Mia Hansen-Love. L’ambientazione è quella paradisiaca dell’isola di Faro, che fu buen ritiro e set di per molti film di Ingmar Bergman e dove oggi una Fondazione custodisce opere e cimeli di quello che fu uno dei più importanti registi de XX secolo. Chris e Tony sbarcano in questo luogo inondato di silenzio e natura, per trovare la loro personale ispirazione. Sarà soprattutto Chris, più insicura, a scavare dentro di sé, una storia intricata e senza finale, in cui una donna e un uomo, un tempo innamorati, si ritrovano proprio su quest’isola e riaccendono la fiamma della passione. Il meccanismo messo in atto da Hansen-Love è tradizionale, quasi classico. Prima si procede con l’esplorazione del luogo, un’osservazione lenta, ripetitiva, talvolta esasperata, per far affiorare parole nascoste. Poi, all’improvviso il racconto travolge la scena, portando a galla impensabili risvolti, come se Chris si ritrovasse davanti ad uno schermo, che è anche specchio, ad osservare, questa volta, una se stessa trasfigurata, ponta a affrontare i piccoli fantasmi della sua vita. La regista è abile nell’usare l’allusione come strumento per moltiplicare la messa in profondità, costruendo una vero e proprio labirinto in cui il suo personaggio si aggira disordinatamente, prigioniera di un racconto che non trova il suo finale.
Grazia Paganelli