Intervista a cura di Camilla Valletti
Vanessa Ambrosecchio ha pubblicato per Einaudi “Tutto un rimbalzare di neuroni”.
L’avvento della Dad, per la sua terza H, segna in un primo tempo una sorta di euforia tra i ragazzi. Lei ha avuto un’ intuizione molto vera: sembra davvero una vacanza. Ci racconta come è andata, come questa novità si è trasformata nell’incubo che è seguito?
È proprio questo che racconto nel mio libro, l’inizio festoso, da vacanza inattesa e soprattutto giustificata: i ragazzi fanno sempre festa quando apprendono che l’indomani la scuola non ci sarà, e stavolta non si trattava di un giorno soltanto, ma di un secondo Natale. Poi alla lunga la vacanza si è trasformata in un tempo sospeso di inquietudine e di paura. La novità è divenuta anomalia, la sorpresa si è trasformata in una nuova alienante quotidianità, e la ragione di quella sospensione ha pervaso e stravolto i ménage familiari, ha generato ansia, smarrimento, dramma. Così quel nuovo modo di fare scuola impostosi per necessità ha indotto tutti a rimpiangere la scuola “di prima”, lo scambio quotidiano degli sguardi, dei corpi, degli odori, lo sforzo di convivere, la fatica di sopportarsi e litigare, la gioia esaltante dei momenti di armonia: insomma, la relazione.
I suoi allievi, descritti in modo tanto vivido, sono in verità la somma di tanti volti, di tanti profili diversi. Come li ha costruiti?
Dopo venticinque anni di insegnamento sono tantissimi i tratti caratteriali, i frammenti di storie personali, gli episodi archiviati nella mia memoria, ma anche il ricordo di esperienze vissute e narrate da colleghi: molte di queste tessere hanno concorso a tracciare i ritratti che sfilano nel mio racconto. E poi scrivere è l’altro mio mestiere: messa a fuoco la sostanza di un personaggio, è egli stesso a determinarsi e imporre nel corso della narrazione tutti gli elementi che ne compongono l’intima coerenza. Quella che descrivo è una classe tipo, con ruoli e dinamiche abbastanza classiche all’interno di un gruppo: non sarà difficile per alunni e docenti riconoscersi nella mia rappresentazione, sebbene i personaggi tratteggiati abbiano una individualità ben definita.
La Dad ha avuto effetti devastanti e soprattutto ha marcato le differenze regionali, di censo, di estrazione all’interno del nostro paese. Lei ha a che fare con una scuola media di una borgata marinara di Palermo. A parte i problemi di connessione, quali sono stati gli altri fattori che hanno pesato nell’apprendimento a distanza?
Nonostante l’impegno dei docenti, che in tutti modi hanno cercato di non perdere nessun alunno, nonostante l’impiego di risorse pubbliche per l’acquisto di devices che le scuole, anche lì con uno sforzo organizzativo reso ancor più complesso dalle disposizioni di sicurezza, hanno dato in comodato d’uso, la Dad è stata una mannaia scesa a discriminare pesantemente le famiglie in stato di svantaggio economico e socioculturale: dove la priorità era mettere il piatto in tavola durante una pandemia che ha paralizzato tanto il lavoro regolare quanto e ancor più il sommerso, mi dica se i genitori potevano avere la serenità, la determinazione, la pazienza di capire come funziona un tablet o di garantire la connessione per tutta la Dad! Ciò ha condizionato certamente le classi meno abbienti, ma anche i ragazzi che, in qualunque situazione sociale, non avessero una famiglia attenta alle spalle. Perché mai come in questa circostanza si è sperimentato quanto la cooperazione scuola-famiglia costituisca l’unica garanzia di successo formativo e prima ancora di benessere esistenziale per un ragazzo. Dove, anche fra i benestanti, la famiglia è assente o non collaborativa, si profila sempre il rischio della deriva.
C’è una allieva che trova sollievo nella Dad, una sola. Quella che a scuola non era integrata, la ragazzina fuori taglia che non trova spazio materiale nel banco di scuola. È vero dunque che per alcuni la Dad ha rappresentato una liberazione dall’istituzione incombente della scuola?
In Dad abbiamo assistito alle situazioni più disparate. Accanto agli alunni brillanti in presenza, che in remoto si sono abbandonati alla demotivazione e all’abulia, abbiamo avuto anche i casi di alunni disabili che in quell’assetto hanno imparato, guidati, a fruire dei mezzi tecnologici sperimentando una nuova autonomia. Il caso che racconto è emblematico di quelle situazioni in cui l’integrazione è un processo lento, che esige la frizione quotidiana all’interno delle dinamiche di classe, un percorso spesso costellato da insuccessi e sofferenza, ma che alla fine costituisce un passaggio di crescita necessario per spiccare il volo. In casi come questo è stato più facile “tornare” a casa e fare scuola protetti da quella distanza che distillava l’esperienza educativa depurandola di dolori e frustrazioni, ma alla lunga non paga. Non si cresce “in vitro”!
Usa molti registri nel suo libro. L’ironia, la commozione, la riflessione, la nostalgia (degli odori, dei suoni, dell’imprevisto che può verificarsi solo quando una classe è riunita nei corpi, nelle posture, nelle battute) Per questo il suo libro sembra un diario. Ma lo è davvero?
Effettivamente è nato come quaderno di appunti, riflessioni, momenti di sfogo durante l’esperienza didattica del primo lockdown, ma non lo definirei un diario. L’impulso creativo ha preso il sopravvento subito dopo, in estate, quando partendo da quelle pagine ho cominciato a reinventare, e reinventare permette sempre di guadagnare la necessaria distanza dalle vicende vissute per guardarle da una prospettiva panoramica, e insieme analizzarle e comprenderne tutta la portata. L’uso dei diversi registri vuol rendere la dimensione corale dell’esperienza scolastica, dove ogni giorno è un concerto di voci dissonanti, un mix di momenti drammatici e episodi divertenti, un colpo di scena continuo: quando si lavora con le persone, in particolare con i ragazzi, ogni giorno è un racconto, ogni anno scolastico un romanzo!
Sono usciti tantissimi libri di scuola, Domenico Starnone con il suo Ex cattedra è stato un modello per gli scrittori italiani che si sono occupati del tema. Lei a chi ha guardato?
Non ho avuto un modello letterario di riferimento, tanto più che il mio libro, pur raccontando la scuola a trecentosessanta gradi, parte da un’esperienza didattica inedita. Diciamo che ho sentito a me vicine le sensibilità, più che di scrittori, di pedagogisti e educatori che ho studiato o che ho avuto modo di incontrare: Danilo Dolci, Don Milani, Mario Lodi, Franco Lorenzoni, da cui ho imparato negli anni, e sul campo, cosa sia irrinunciabile mettere al centro dell’azione educativa: la qualità dello sguardo e dell’ascolto reciproco, la necessità di rendere gli alunni protagonisti del loro processo formativo e la costruzione cooperativa del sapere, fatta da docenti e discenti insieme, in cui l’alunno è chiamato non a trangugiare informazioni, ma a realizzare un progetto, materializzare un’idea, costruire qualcosa che non c’era, creare dal nulla. Ho voluto raccontare proprio come una scuola fatta così, ben più che un approccio trasmissivo tradizionale, abbia rischiato di essere stroncata dalla Dad, ma anche come, alla fine, abbia retto molto meglio alla sfida della distanza in termini di coinvolgimento, scongiurando le pericolose derive cui abbiamo assistito in molti casi.
Poche testimonianze sulla Dad uscite in questo tempo di pandemia sono così vive, così palpitanti di amore per la professione e di attenzione per ogni singola individualità degli allievi come la sua. Da dove le è arrivata l’urgenza, la passione di reimparare le parole per misurare la sua storia, il lessico originalissimo, tutto mescolato di riferimenti colti e di battute rubate ai ragazzi?
In questi quasi vent’anni dalla pubblicazione del mio primo romanzo (Cico c’è, Einaudi 2004), in me scrittura e scuola hanno camminato in parallelo. Ma via via ho capito che hanno qualcosa in comune: un’ora di lezione, così come il lavoro a un testo letterario, non sono semplicemente un viaggio, ma un volo, ne hanno la stessa pericolosità, perché ci si deve staccare da terra, si abbandona il conosciuto, si sperimentano nuovi difficili equilibri, e si deve correre il rischio di lasciare a terra un pezzetto di sé, perché solo così si riesce a levarsi. Penso che proprio l’esperienza traumatica della Dad abbia ingenerato in me il sentimento dell’urgenza di mettere la scuola al centro del dibattito pubblico, e spero che questo mio libro dia un contributo in tal senso. A causa della pandemia e delle sue conseguenze si sono palesate tutte quelle fragilità che il personale scolastico conosce da sempre, ma che l’opinione pubblica ignorava o trascurava. L’agenda di governo deve metterle al primo punto, perché è la qualità della scuola che si fa in un paese a determinare la salute della democrazia e la rinascita economica e sociale. Chi vive per nove mesi dentro una classe sa di cosa parlo: quel microcosmo è una fucina quotidiana e faticosissima di convivenza civile, inclusione, sviluppo del pensiero critico, scoperta e valorizzazione dei talenti. E la scuola o è questo, o non è. Se il paese si darà le risorse umane ed economiche per sostenerla e potenziarla, allora in tempi relativamente brevi vivremo in un posto migliore, all’altezza delle sfide che l’epoca ci impone.
Una domanda d’obbligo, cosa si può salvare, ammesso che sia possibile, della didattica da remoto? Remoto, un tempo e aggettivo su cui lei ragiona in modo molto interessante…
Remoto, fino a poco tempo fa, era solo il tempo; adesso lo è anche lo spazio, ma in uno spazio dilatato, filtrato, inattingibile, il tempo che ci illudiamo di guadagnare accorciando le distanze fisiche si perde in termini di efficacia della comunicazione, di ottundimento delle emozioni. E le emozioni sono il motore della relazione educativa e dell’apprendimento: senza quelle, l’apprendimento si ferma all’acquisizione, e non mette radici. Alla Dad dobbiamo tuttavia uno sviluppo accelerato delle competenze tecnologiche di tutti, alunni, docenti e genitori, che in molti territori non era affatto scontata. Dobbiamo la capacità che i docenti hanno dimostrato di saper fronteggiare l’inatteso con flessibilità, intraprendenza, determinazione, spirito di servizio: ci siamo sentiti chiamati alla grande responsabilità di trattenere i ragazzi sull’orlo del baratro, agganciandoli all’impegno culturale, alla curiosità, alla voglia di sapere. E per questi giovani, nati nell’era del “voglio dunque ho” è stato formativo sperimentare che tutto ciò che abbiamo non è dato una volta per sempre, non è scontato; che possono essere dietro l’angolo situazioni nuove che mettono in forse tutto, e che proprio per questo dobbiamo essere pronti a reggere, e persino a trarre frutto dalle difficoltà: nella maggior parte dei casi, i ragazzi sono stati molto più bravi di noi.