Anatolij Kuznecov – Babij Jar

Seguendo gli ossicini: prosa intima e censura

di Antonella Salomoni

Anatolij Kuznecov
BABIJ JAR
ed. orig 1966, trad. dal russo di Emanuela Guercetti,
pp. 454, € 22,
Adelphi, Milano 2019

Nel 1946, il poeta Jakov A. Chelemskij fissa l’immagine della distruzione a Babij Jar evocando la materia elementare entrata nella vita quotidiana degli abitanti di Kiev: “Il vento ha traversato le pareti carbonizzate, / Spazzando la cenere nei vecchi luoghi d’incendio. / Fa mulinare sul Chreščatyk le ceneri sacre, / Polvere soffocante che scende da Babij Jar. / Se sotto il fogliame dei castagni fiorenti / In questa città avete dimenticato il dolore passato, / Lo rammenterete investiti all’improvviso / Da una desolante nube di polvere e cenere”. È di questa stessa cenere che ci parla Babij Jar di Anatolij Kuznecov.

Figlio di madre ucraina e di padre russo, Anatolij Kuznecov era nato a Kiev nel 1929. Trascorse gli anni della guerra in una casa a poca distanza da Babij Jar. Dopo l’arrivo dei tedeschi l’accesso gli era stato proibito, ma l’adolescente aveva compreso quali fossero le funzioni assegnate a quel sito, sentendo protrarsi a lungo, giorno dopo giorno, i colpi d’arma da fuoco che ne provenivano. Alla fine del secondo anno di occupazione aveva potuto osservare, per alcune settimane, un fumo grasso e pesante che si levava all’orizzonte. Ritornò a Babij Jar all’indomani della liberazione per vedere cosa vi fosse rimasto. Il burrone era ancora enorme, profondo e largo come una gola di montagna. Sul fondo continuava a scorrere un limpido ruscello, che i bambini del circondario conoscevano bene per avervi giocato o fatto il bagno. Qualcosa era però cambiato: “C’era sempre una bella sabbia grossa, ma adesso, chissà perché, era tutta cosparsa di sassolini bianchi. Mi chinai e ne raccolsi uno per osservarlo meglio. Era un pezzettino d’osso bruciacchiato grande quanto un’unghia, bianco da un lato e nero dall’altro. (…) E così seguimmo a lungo quegli ossicini, finché non arrivammo proprio all’inizio del burrone, e il ruscello scomparve: era lì che nasceva da molte sorgenti che stillavano dalle falde sabbiose sottostanti, e appunto da lì aveva portato via le ossa. Ora il burrone si restringeva diramandosi in diversi bracci, e in un punto la sabbia era diventata grigia. Di colpo ci rendemmo conto che stavamo camminando su cenere umana”.

Babij Jar fu portato a compimento dopo la caduta di Chruščëv, quando Kuznecov era ormai uno scrittore affermato. Nel 1957 aveva pubblicato La leggenda continua, storia di un giovane in procinto di entrare nell’età adulta, che gli valse grande popolarità come rappresentante di una nuova corrente letteraria interessata a cimentarsi, sul modello roussoviano, con la rivelazione della vita intima. Babij Jar fu concepito come un “romanzo-documento”, che l’autore aveva iniziato ad immaginare durante la guerra quando, “ragazzino affamato e irrequieto”, si era messo ad annotare in un grosso quaderno tutto ciò che vedeva, sentiva e sapeva. Per la stesura si fondò sui propri ricordi, ma si procurò anche del materiale complementare, così come interrogò superstiti e altri testimoni. Gli incontri con coloro che erano riusciti a uscire fuori dal burrone, strisciando letteralmente da sotto i cadaveri, turbò molto il suo equilibrio fisico, mentale ed emotivo. “Quello che mi hanno raccontato è talmente spaventoso che ho perso il sonno” – scrive al poeta Shlomo Even-Shoshan (lettera del 17 maggio 1965). Poco tempo dopo gli manifesta uno stato di prostrazione ancora più profondo e ammette di assumere dei farmaci potenti che gli offuscano le percezioni: “Sono molto malato. A Kiev, ho così logorato i miei nervi, ho preso così a cuore ciò in cui mi sono imbattuto durante la raccolta della documentazione, che adesso seguo una terapia intensiva e non posso lavorare. Non pensavo che i turbamenti del passato, trascorsi oltre vent’anni, potessero agitarmi a tal punto” (lettera del 2 giugno 1965). In seguito avrebbe ricordato di essere stato spesso obbligato ad interrompere la scrittura a causa delle “grida nelle orecchie di migliaia di persone messe a morte”, un sogno ricorrente che gli provocava sempre nuovi sussulti: “Ora mi vedevo sdraiato e mi sparavano in faccia, al petto, alla nuca, ora stavo un po’ in disparte con un quadernetto in mano e aspettavo l’inizio, ma loro non sparavano, erano in pausa pranzo, facevano un rogo di libri, pompavano torbida, e io aspettavo che succedesse qualcosa”.

Babij Jar apparve a puntate nel 1966, nella rivista ad ampia diffusione “Junost’”, e l’anno successivo fu stampato in edizione separata. Il romanzo sembrava del tutto aderente ai canoni dell’ideologia sovietica. Ma il lettore non poteva essere a conoscenza della radicale revisione editoriale che l’aveva epurato e ridimensionato. Le trattative dell’autore con la redazione di “Junost’” erano state estenuanti e avevano dapprima prodotto una versione in cui il significato dell’opera non era del tutto stravolto. Il vero e proprio lavoro censorio iniziò subito dopo e si tradusse in una tale quantità di tagli, modifiche e annotazioni che, a volte, non si riusciva più a individuare il testo attraverso le variopinte correzioni dei revisori. Tutte le opere precedenti di Kuznecov erano state soggette a rimaneggiamenti d’ufficio, ma nel caso di Babij Jar ci si trovò di fronte non solo alla soppressione di un quarto del romanzo, ma al capovolgimento del suo stesso significato.

Nel luglio del 1969, giunto a Londra per trascorrervi un periodo di ricerca, Kuznecov domandò e ottenne asilo politico. Aveva portato con sé dei microfilms su cui aveva trasferito tutti i suoi scritti e, tra questi, la versione integrale di Babij Jar. In una dichiarazione pubblica spiegò i motivi di una “defezione” che a molti poteva risultare incomprensibile, visto che il richiedente godeva in patria di popolarità, onori e privilegi. Era una straordinaria lettera-confessione e, al tempo stesso, un manifesto sulla responsabilità dello scrittore: “Non potevo più vivere in Unione Sovietica. È stato più forte di me. Non potevo proprio andare oltre. Se dovessi di nuovo trovarmici, uscirei di senno. Se non fossi uno scrittore, forse potrei resistere. Ma come scrittore non posso”. L’artista aveva la missione di far parlare l’“inesplorato”, il dovere di essere onesto e creare in modo autonomo, ma tutto ciò gli era stato precluso. Al contrario, le sue opere erano state tutte così falsate da farlo vivere “in una incessante contraddizione, nell’oscurità e senza via d’uscita”. Dopo aver cercato un compromesso tra servile assoggettamento e aperta ribellione, era giunto alla conclusione che ogni tentativo di preservare anche solo una minima dose di libertà creativa fosse fallito. Avendo scelto l’esilio, era consapevole che i suoi libri sarebbero stati messi al bando e, tutto sommato, preferiva anticipare la sanzione da irrogare pregando di distruggerli, poiché non si trattava di ciò che aveva realmente scritto: “Pubblicamente e per sempre rinnego tutto quello che è stato stampato sotto il nome di Kuznecov (…). Dichiaro formalmente che Kuznecov è un autore disonesto, conformista, codardo. Rinnego questo cognome”.

È infatti sotto il nome di A. Anatolij che Babij Jar fu ristampato l’anno seguente, in lingua russa, dalle edizioni Posev a Francoforte. Nella prefazione l’autore – dopo aver ricostruito le vicissitudini del testo – riassumeva le peripezie che ogni scrittore sovietico doveva affrontare per veder pubblicate le proprie opere: “lottare per ogni frase, mercanteggiare, aggiungere robaccia ideologica”, in un aggrovigliato crescendo di “stratificazioni” e “voragini censorie”. In sostanza, ci spiega Kuznecov, leggere un qualsivoglia libro di un letterato sovietico esige uno sforzo intellettuale e implica il tener conto del fattore-censura per rinvenire l’idea nascosta tra le righe e comprendere ciò che è stato cancellato. È per rivelare “l’idea nascosta” che, nella nuova versione, la stratificazione era resa espressamente visibile. Così concepito, Babij Jar rappresentava, e ancora oggi rappresenta, un prezioso materiale sui metodi, la psicologia e i pregiudizi di scrittori, redattori e censori.

antonella.salomoni@unical.it

A. Salomoni insegna storia contemporanea all’Università di Cagliari

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