di Luca Bevilacqua
Prima di innescare (fatalmente) il disaccordo di alcuni, vorrei proporre un punto di convergenza. L’Oscar al miglior attore e alla migliore attrice si dà per un’interpretazione superlativa. Anzi, la migliore in assoluto. Quello per la regia segue lo stesso principio, applicato però a un’operazione più vasta e complessa: l’idea di un film, il modo di girarlo (la tecnica), ma poi soprattutto un certo ritmo, una certa visione – possibilmente unica – del cinema e del mondo. Per il Nobel alla letteratura, fatti i dovuti distinguo, si dovrebbe procedere in modo analogo. Certo in questo caso non è soltanto un libro a motivare il premio, ma un’intera opera, e dunque più libri (romanzi, raccolte poetiche, drammi). Dall’insieme di questi libri deve affiorare uno stile, una veduta d’insieme. Ovvero qualcosa di sorprendente ed in sé eversivo, e che rimane tale attraverso il tempo. Anche quando quei libri li rileggiamo, a distanza di anni, e dovremmo in teoria averli neutralizzati proprio per il fatto di averli compresi e assorbiti.
Ma come ogni bravo studioso sa – e come sa ogni vero lettore – alcuni scrittori continuerebbero a stupirci e interrogarci, suscitando alternativamente angoscia, miracolose tenerezze, trasalimenti, invidie, nervosismi e infatuazioni, anche se li leggessimo dieci o venti volte. Persino se li leggessimo in una seconda vita o in una terza, qualora ci fosse data la possibilità di vivere e leggere di nuovo.
Insomma in un mondo ideale (il che insinua un fondo di frivola utopia nel mio discorso), il Nobel per la letteratura dovrebbe essere dato esclusivamente per meriti letterari: per lo stile specifico e irripetibile che illumina alcuni libri, anche molto diversi tra loro, redatti dalla stessa mano.
Veniamo ora alle motivazioni per il Nobel ad Annie Ernaux. Un’ultima premessa o precisazione: ho lavorato per anni (e lavoro) su alcuni testi considerati – per diverse ragioni – fra i più difficili della letteratura europea. In particolare su Mallarmé. Eppure stento a districarmi, stento a comprendere fino in fondo a causa degli slittamenti metaforici e l’asciutta concisione, il significato di queste parole che invece tutti sembrano aver compreso alla perfezione: “Per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Le leggo e le rileggo, cerco di farle combaciare da un lato con l’idea che ho in mente (i meriti stilistici, l’assoluta specificità letteraria di chi riceve il premio più prestigioso) e dall’altro con quello che conosco dell’opera di questa notevole scrittrice. Ma poiché seguito a non capire, prima di rassegnarmi definitivamente alla mia ottusità, propongo a me stesso un’ipotesi che forse non è del tutto peregrina. Se voglio capirci qualcosa, devo smettere di pensare ai meriti letterari, devo smettere di pensare allo stile – quello di Ernaux è notoriamente piano, e non a caso accessibile a un pubblico molto vasto. No, devo pensare al clima storico e ideologico in cui si colloca il conferimento di questo premio. Come per certe poesie che tante volte m’è capitato di commentare, devo poi guardare alle singole parole, ad esempio “coraggio”. Quello con cui tutti (e non solo le donne ovviamente), dobbiamo scrutare questa nostra epoca, e la nostra singola condizione. Devo pensare al modo “acuto” e “clinico” (cioè medico, terapeutico) con cui le ragioni e le storie, di ogni singola persona che abbia sofferto (nell’infanzia, nella maturità o nella vecchiaia), possono proiettarsi verso la “collettività”. In modo che il singolo risulti utile agli altri: una missione sociale. Ecco in sostanza cosa è stato premiato. Non lo stile, non la visione della letteratura. E da qui discende una delusione. Perché lo stile (sosteneva Leo Spitzer) è scarto. Il che vuol dire, al di là di fatti puramente linguistici o retorici, che lo scrittore inventa qualcosa, la sua opera letteraria per l’appunto, che non potrà essere integrata o utilizzata direttamente da nessuno nel terreno della vita concreta. Perché l’opera letteraria appartiene in fondo soltanto a se stessa, e persino il suo autore ne resta in certa misura tagliato fuori.
Qualcuno obietterà: “Tu perciò ritieni che Ernaux non abbia un suo stile? Non è forse una degna scrittrice?” Ed è proprio questo il punto. Per andare un minimo più a fondo, e riprendendo le categorie di uno specialista della narrativa francese contemporanea, Dominique Viart, Ernaux si è mossa da un piano “sconcertante” (ovvero stilisticamente innovativo) dei suoi primi libri, tutti autobiografici, verso un orizzonte sempre più “concertante” (ovvero in sintonia con argomenti e posture di molti movimenti di idee assai tipici dei nostri giorni). Per tentare una definizione in negativo, sperando che il negativo non sia troppo fuori moda e mantenga una sua utilità almeno sul piano intellettuale, penso alle cose che non percepisco in Ernaux, e che invece un maestro come Manganelli riteneva essenziali per la letteratura, la quale “corrotta, sa fingersi pietosa; splendidamente deforme, impone la coerenza sadica della sintassi; irreale, ci offre finte e inconsumabili epifanie illusionistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità. Quando getta via la propria anima trova il proprio destino”.
Ho l’impressione che Ernaux, sempre coraggiosa, e sincera, ed esemplare in tutti i suoi libri (e non manca di sottolinearlo in ogni intervista), non abbia affatto gettato via la sua anima come autrice: al contrario se l’è tenuta ben stretta, e ce la offre oggi come riferimento sul versante morale. Per questo ha ricevuto il Nobel. Che forse è un “destino”, per dirla con Manganelli, ma solo all’interno del comune mondo reale. L’antidestino, che è nutrimento della più alta letteratura, così come la vertigine dello stile, non le appartiene.