Tommaso Labranca: triste, solitario y final

Atlante di luoghi, vita e opere di Tommaso Labranca, scrittore e agitatore culturale

articolo di Renato Leoni

Claudio Giunta
Le alternative non esistono
La vita e le opere di Tommaso Labranca
pp. 264, € 23,
il Mulino, Bologna 2020

Ipotizzando un epitaffio da mettere sulla propria tomba, Luciano Salce suggerì mestamente di aver vissuto sempre al di sotto delle proprie possibilità. Non ci è dato sapere cosa avrebbe detto Tommaso Labranca, scomparso improvvisamente nel caldo agosto del 2016, ma il sospetto è che il giudizio non potesse essere troppo distante, se non addirittura più amaro, da quello del regista che tanto amò. Con Le alternative non esistono, Claudio Giunta scandaglia gli alti e i bassi di un autore controcorrente, tra i meno fortunati delle ultime generazioni. Privo di paraocchi intellettualistici, osservatore imprevedibile, colto e senza accademicismi, dotato di humor spiazzante, originale ma purtroppo anche competitivo, rancoroso, ombroso, chiuso e ingestibile. Tornando indietro a quel giorno del 2016, è facile ricordare il cordoglio che molti colleghi e amici (e soprattutto ex amici) tributarono a Labranca, ma quei saluti erano sempre colorati da un dispiacere per l’isolamento che negli ultimi anni aveva scontato, per gli insuccessi che aveva accumulato, e talvolta per screzi personali che avevano troncato diversi rapporti. Nelle più di duecento pagine in cui Giunta racconta la parabola di Labranca, fin dalle prime righe la sensazione è di trovarsi davanti a una vicenda all’insegna dell’avvilente, già conclusa come un fallimento e inevitabilmente amara, senza un bagliore di consolazione. Insomma, per il lettore è impossibile non percepire la tristezza dell’ultimo Labranca: un malore improvviso e veloce lo colpisce durante uno dei lunghi periodi di precarietà e isolamento e se lo porta via velocemente, sottraendolo a un presente costellato da difficoltà materiali ed emarginazione, spesso autoinflitta. La gloria ormai è lontana.

Un lettore interessato all’opera di Labranca, oggi sarebbe costretto a spulciare tra biblioteche e mercato dell’usato, o ad andare in librerie di un altro pianeta. Eppure Labranca è scomparso solo quattro anni fa, lavorando fino all’ultimo ad ogni sorta di progetto possibile. Nell’arco di un ventennio ha messo insieme una quindicina abbondante di titoli, alcuni dei quali diventati vere e proprie chicche introvabili, oggetti di culto quotatissimi nelle aste online. Dividendo in tre blocchi la vita di Labranca, Giunta ricostruisce il percorso di un osservatore instancabile e imparziale che parte dall’universo delle fanzine autoprodotte negli anni ’80 (epoca in cui usava lo pseudo Santi Bailor rubato al Sordi di Un americano a Roma), in una Milano sempre avanti e sempre aperta alle contaminazioni, prosegue con successo negli anni ’90, alternando la pubblicazione di piccoli successi a partecipazioni a programmi televisivi cult (Anima Mia, con Fazio e Baglioni), e poi mano a mano rallenta, scende incessantemente i piani del lavoro culturale nell’Italia desertificata degli anni 2000 fra libri non pubblicati, conflitti personali, isolamenti e paranoie, collaborazioni rifiutate, testate che chiudono, case editrici marginali, fino al ritorno a lavori di sussistenza (“biografie alimentari” su personaggi famosi, non per questo mal confezionate) e autoproduzioni (la casa editrice 20090, cofondata con Luca Rossi, tramite la quale pubblicò riviste come «Tipografia Helvetica»).

Per parlare di Labranca è necessario dare delle coordinate: Labranca nacque a Milano da genitori pugliesi negli anni del miracolo economico, e fu a tutti gli effetti un figlio-apologeta della civiltà dei consumi. Visse tutta la vita nell’hinterland milanese, ebbe un’istruzione atipica (scuola di lingue per traduttori, niente università), fu un autodidatta onnivoro e privo di intellettualismi. Musica classica, scrittori borghesi, pittura d’avanguardia, architettura moderna e fumetti commerciali, musica pop, sottomarche da discount, emittenti di provincia: tutto si mescolava nell’immaginario del consumatore della società di massa di quegli anni, e Labranca seppe tesaurizzare quel piccolo nuovo universo di contrasti e complementarità elaborando il proprio immaginario e il proprio stile, la propria filosofia estetica. Giunta riesce a riassumere le posizioni del mondo accademico su tutto quello che era pop all’epoca, e ricorda la dirompenza  di Andy Warhol era un coatto – vivere e capire il Trash (1994, Castelvecchi), vero esordio di Labranca per il grande pubblico, sulla scia del quale uscirà a ruota Estasi del pecoreccio – perché non possiamo non dirci brianzoli (1995), per poi finalmente approdare a Einaudi con Chaltron Hescon – Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo (1998), dalla fortuna editoriale già minore.
In questi primi saggi apparentemente dai toni leggeri, frivoli, ma scritti in modo originale e ben curato, e con il successivo Neoproletariato (2002, ritorno a Castelvecchi dopo l’abortito Cinque meno meno per Einaudi), Labranca sviluppa temi e categorie quali il trash, il barocco brianzolo, il cialtronismo, i modelli della nuova piccola borghesia involuta, affermandosi così come esperto della cultura pop e originale saggista fuori dai canoni, ma al contempo acquistando la nomea inestirpabile di quello del trash, sdoganatore di cazzate, apologeta del provincialismo più ruspante o peggio ancora specialista della merda.


Labranca non esaltava la cultura bassa, i prodotti commerciali, la ridicolaggine insita in ogni imitazione fallita contro la cultura alta, i classici, i modelli accademici, ma sapeva capire le qualità e le funzioni dei prodotti più pop, genuini, privi di pretese accanto alla cultura tradizionale. Amava spiegare soprattutto quegli elementi culturali semplici e quotidiani in grado di rappresentare un’epoca e cogliere lo Zeitgeist, capaci di diventare minimi comuni denominatori per un periodo estetico, sociale, culturale. A rendere importante Labranca è la distanza che pone tra sé e gli oggetti di studio: non quella del dotto intellettuale che guarda dall’alto in basso (in poche parole: l’Eco di Fenomenologia di Mike Bongiorno) ma quella del contemporaneo, figlio del boom e del consumismo, che non osa mai salire in cattedra per criticare i nuovi frutti della società di massa.

A questo proposito, Giunta commenta: «i libri di Labranca erano stati importanti per me, tra i venti e i trent’anni, perché Labranca faceva il contrario di ciò che ci avevano insegnato a fare a scuola e all’università. Da un lato prendeva molto sul serio le cose pop (TV, cinema di serie B, canzonette, fumetti), e ne parlava con amore, ironia e intelligenza, e in più con uno stile delizioso, lontano anni luce dai birignao demenziali dei semiologi: Andy Warhol era un coatto e Estasi del pecoreccio erano lo svolgimento di questo programma. Dall’altro, trattava la cultura ‘seria’ con un’indipendenza di giudizio che per noi vittime del liceo classico e della facoltà di Lettere aveva una autentica forza liberatoria. Labranca prendeva in giro tutti, gli elzeviristi pensosi, i romanzieri impegnati, i peracottari dell’arte contemporanea, e tutta la retorica idiota che avvolgeva e avvolge, specie in Italia, le arti e il discorso sulle arti. Indovinava il grottesco là dove gli altri credevano di vedere il sublime, rideva là dove gli altri indossavano la loro maschera compunta: Chaltron Hescon era questo».

E Giunta, tra le altre cose, non manca di inserire Labranca in una lista di grandi dissacratori nazionali come Berto, Savinio, Flaiano, Brancati. Se non che, avendo pur sfornato pagine di rara precisione sul carattere del cialtronismo nazionale e dei suoi epigoni, Labranca incassò un netto insuccesso, una vera delusione, con l’uscita di Chaltron Hescon: prima il rifiuto da parte di Feltrinelli, dopo il basso numero di vendite che concluse il rapporto con Einaudi e segna l’inizio di una inesorabile, non lenta discesa.

Quello in bilico tra i due secoli fu per Labranca un periodo di svolta. Lontani gli anni di gavetta e di lavori precari, appena conclusi quelli di successi e opportunità, come autore esordiente e programmi televisivi. Ormai quarantenne, Labranca continuò a pubblicare libri, spostandosi verso la narrativa ma sempre tenendo come punti di riferimento gli elementi già esposti nel decennio passato. Continuò a collaborare con tv, radio, giornali, subendo i contraccolpi della crisi e del proprio carattere difficile. Giunta sottolinea due caratteristiche dello spirito autodistruttivo di Labranca: in primis la Purezza, che esigeva da chiunque frequentasse (su frequentazioni, gusti, scelte) ma che al tempo stesso applicava a se stesso (eppure, pur di rifiutare profumate collaborazioni per programmi di prima importanza era disposto a scrivere per Cronaca Vera o Libero, in un avventuroso tentativo di mantenere più carta bianca possibile sulla propria operatività); in secundis le mani bucate, lo sperpero continuo di denaro, l’incapacità di risparmiare qualcosa per il futuro. E con ciò la costante esigenza di lavoro, in un contesto economico sempre più asfittico. Insomma: precarietà totale.

«Chi ci legge? I poveri, i marginali, quelli che non hanno internet. Cioè un frammento d’Italia assolutamente invisibile. Siamo l’house organ di quelli che non arrivano a fine mese, tiriamo circa 60.000 copie. Ma il nostro pubblico invecchia e s’impoverisce, uno può constatare come le cose peggiorino quasi settimana dopo settimana. Giorni fa ho ricevuto una lettera di un pensionato. Diceva che comprava “Cronaca vera” solo una volta al mese perché una volta al mese usciva per andare a prendere la pensione; era il regalo che si concedeva, due non poteva; non è che non vi voglio comprare, scriveva». Così Giuseppe Biselli, direttore della testata, riassume benissimo l’universo parallelo di quei marginali, poveri, che non hanno internet (e senza visibilità) e ancora popolano il nostro paese. In questo contesto Labranca si inserì per avere un’occupazione, dopo aver cestinato l’offerta di scrivere domande per Ligabue in prima serata. Quell’universo non era nient’altro che la prosecuzione dell’habitat naturale da cui Labranca veniva. L’Italia delle periferie, delle cinture attorno alle grandi città, descritte da arterie stradali, quartieri dormitorio, sobborghi di casette a schiera e caseggiati popolari lungo le ferrovie, centri commerciali e piccole attività lavorative. Zone di pendolari e di gente che va nelle grandi città per sognare, per non sentirsi tagliata fuori. Non a caso, nel suo ultimo decennio di vita Labranca ha sempre parlato del mondo attorno a Milano. Refrattario agli spostamenti, tanto da teorizzare la necessità del non andare in vacanza, Labranca conosceva benissimo l’atlante storico-geografico lombardo (e non per nulla la sua opera è disseminata di omaggi a quel narratore che fu Piero Chiara) e dedicò quasi una decina di libri al proprio piccolo cosmo.

È vero che le trame di Labranca sono ridotte al minimo e hanno semplicemente la funzione di presentare le opinioni della voce narrante, sempre e comunque un alter ego dell’autore, e perciò si potrebbe dire: letto un libro, letti tutti. Ma bisogna riconoscere a Labranca l’onestà di non voler mai abbindolare il lettore con scenari inverosimili e trame annacquate: il tempo di lettura è tendenzialmente breve, vola via senza noia con disquisizioni imprevedibili su ogni oggetto della nostra quotidianità e personaggi a tutto tondo. Vale la pena riprendere le parole di Giuseppe Genna all’indomani della dipartita: «questa persona era un uomo che aveva uno stile. Lo ha sempre avuto, del resto. Soprattutto sulla pagina, poiché scriveva da dio. Gli sono grato di quell’apertura in un decennio orripilante, come tutti i decenni, quando si inventò la sintesi di un intero immaginario: l’ultimo immaginario a essere unico».

Come già scritto e come è intuibile, le opere di Labranca dal Duemila in poi hanno avuto pochissimi lettori, sono disperse tra case editrici piccole od anche fallite, se non addirittura autoprodotte e perciò ancora più introvabili. Nell’ultimo decennio di vita Labranca lavorò incessantemente, dedicandosi a mille progetti per sbarcare il lunario, confezionando instant book e scrivendo i propri libri a parte nei ritagli di tempo.
Si possono seguire diverse linee leggendo le opere della maturità, vedendo o meno un rapporto con la carriera che va dalle fanzine fino a Neoproletariato. Passioni musicali, paesaggi urbani, mode di passaggio, richiami ad autori amati, stralci biografici compongono l’immaginario di Labranca. Ibridando il saggio con la narrativa il rischio è sempre quello di leggere libri che non sono né una cosa né l’altra, e nel caso di Labranca in definitiva non è importante: quel che importa è la visione dell’autore sul proprio presente, costantemente in conflitto con il passato (mai arcadico, semmai meno infestato di peracottari e cialtroni che si vantano d’aver inventato l’acqua calda, ma lo si vedrà più avanti). Sostanzialmente pessimista, a salvarsi forse c’è il futuro: sognato nei momenti più lirici, riconducibile soprattutto ad un effimero amore per la solitudine, per il vuoto che mai si concretizzò pienamente, complice la prematura scomparsa.

Nella decina di libri che Labranca scrisse a tamburo battente negli ultimi anni si può notare questa dualità tra passato e presente: Il Piccolo Isolazionista, 78.08, Progetto Elvira e soprattutto Astrakhan vertono su un gioco di memoria tra un mondo sepolto, estinto, animato da piccole gioie e solide figure e un presente incerto, inquinato da personaggi ultra autoreferenziali e degni di un corso di antropologia criminale delle piccole cose.
Labranca affida di volta in volta ad un alter ego il compito di esprimere il disagio per gli aspetti più comuni (il lavoro, i consumi, le relazioni) della contemporaneità. Ma non punta mai verso l’autocommiserazione e il patetico, anzi, tutto ciò che genera fastidio diventa un trampolino di lancio per l’agguerritissimo critico del costume che Labranca è sempre stato, e niente riesce a sfuggire alla sua scure: gli pseudolavori in campo culturale, la rivalutazione di mode un tempo disprezzate, l’affannosa esterofilia ostentata, le diete e le vacanze low cost.

In 78.08 il protagonista Antonio Maniero, quasi omonimo del Tony Manero di John Travolta di Saturday Night Fever, è divelto tra un passato evaporato in una adolescenza anestetizzata da musica pop, obiettivo del disprezzo degli allora politicizzati, ed un presente all’insegna della precarietà e della piattezza estetica assoluta: si arriva addirittura a rivalutare la discomusic (e questo scherzo del destino non gli va giù) . Non si rischia di passare per nostalgici di un passato troppo lontano? Forse, se si legge con disattenzione, ma riprendendo un libro come Progetto Elvira lo scopo dichiarato è ricordare che l’Arcadia Felix del bel tempo antico è solo un mito, non esisteva neanche quando l’occupazione era piena ma l’opulenza volgarotta del boom non era ancora una realtà consolidata. E infatti l’autore ci tiene a precisare: «Quello del 1959 era un mondo diverso. Non più buono, anzi. Questo film, che si chiama Il vedovo, è la dimostrazione di quanto cattivo fosse allora l’essere umano. Come in ogni altra stagione del mondo, d’altronde. Bambini, non credete a scrittori e priori che rimpiangono il pane e le acciughe, i giochi semplici e la solidarietà di un’Italia pretelevisiva. La loro falsità è doppiamente malefica perché oltre a dire bugie le vanno a dire in quella televisione che tanto detestano. Bambini, guardate Il vedovo e coltivate la vostra ferocia.»

Il viscido personaggio di Alberto Sordi, il dottor Nardi, nel film di Risi è l’archetipo di un italiano che tutti conoscono. È il più sordiano dei personaggi sordiani. Pronto a tutto ma buono a nulla: peracottaro, parola che nel dizionario delle categorie labranchiane può stare a buon diritto vicino a cialtrone, trash, neoproletario. Il film di Risi parlava sì di un peracottaro cui fare attenzione, ma non di meno è l’occasione per Labranca di sviscerare il proprio amore per la propria città, e togliersi qualche sassolino dalla scarpa contro i suoi numerosi detrattori, iniziando da esempi illustrissimi: «la solita storia del potere che ci opprime rappresentato dai grattacieli, solfa su cui ha costruito la sua fortuna postuma uno scrittore che non ammiro. Scandalizzatevi, ma quando Bianciardi viene a Milano e si mette a fare la morale ai grattacieli mi viene voglia di dirgli: “Perché ci resti se non ti piace? Perché fai l’anarchico in un posto che non è casa tua? Se non ti piace, torna a fare il giro sotto le mura di Grosseto. Fai esplodere un palazzetto della signoria, anche quello è simbolo di potere”. Ma Bianciardi è morto, dei morti non si deve parlare male e allora indirizzo la stessa cosa ai Bianciardini, alle matricole calabresi che appena messo piede in Bicocca criticano le architetture che ospitano l’università e fanno la morale ai grattacieli».

Lo scrittore di Grosseto osò criticare la Torre Velasca, sunto della bellezza moderna di Milano per Labranca. E guai anche a criticare l’industria culturale dell’epoca, soprattutto quando si è costretti a vivere di piccole collaborazioni con ogni sorta di testata nei duri tempi della digitalizzazione del cartaceo… Guai ad ostentare troppo, come fanno le santexuperine scalze o i mistificatori deleuziani in Vraghinaròda tra un vernissage e una fantomatica collaborazione con gallerie di Londra/Berlino. C’è anche un altro mondo che corre accanto a quello dell’autoreferenzialità 2.0: ci sono gli sventurati Petrescu, raro caso di personaggi positivi in Labranca, emigrati rumeni e vittime della xenofobia nostrana in Haiducii – Homo homini Pittbull. E c’è l’inossidabile concretezza senza fronzoli della signora Rundheim vedova Tirlaghi, protagonista di Astrakhan – La zia e l’estetia perbenista fulgido esempio appunto di un’estetica che non vuole ostentare nulla, sicura della propria utilità e nemica della scostumatezza. Astrakhan come il materiale dal nome esotico e dai prezzi modici, ma anche come il famoso Il cappotto di Astrakhan di Piero Chiara, autore prediletto.

«Guai, rompere gli incanti! Gli incanti vanno conservati, perché sono l’unica fonte di felicità». Così concludeva il Chiara in Vedrò Singapore? e così inizia Mu – La risaia in fiamme (2012 e 2015), pubblicato in formato digitale e poi stampato nella collana Tipografia Helvetica della casa editrice 20090. Mu è il racconto di una fuga dal proprio universo natale, in questo caso il Molise, terra sconosciuta da Labranca ma sconosciuta per definizione nel senso comune (se non addirittura inesistente), verso la grande città. Mu vuole estraniarsi da tutto e tenta una fuga nell’anonimato. Ama il Nord con il suo bianco e i suoi spazi, in particolare l’Islanda. E a quest’ultima passione travolgente di Labranca Giunta ha dedicato il capitolo Solo freddo vuoto bianco nell’ultima parte del saggio. Criofilia, voce di questo capitolo, è un altro filo rosso che attraversa le opere di Labranca.

Si potrebbe dire che è il filo che unisce l’animo più lirico, sussurrato e profondo dell’autore. Il Piccolo Isolazionista, Mu, l’antologia postuma Agosto Oscuro rendono questa anima più distaccata e sognante. Da una parte il Labranca battagliero, agguerrito smascheratore delle ipocrisie di noi presunti esseri unici e speciali, dall’altra il Labranca dimesso, solitario, che non ama le bolge umane e preferisce cercare il silenzio dove è possibile. Ricordo di aver visto una presentazione con Tommaso Labranca al Salone del libro di Torino del 2014. Era ospite presso lo Stand della Regione Marche con il professor Paolo Parigi. Poco più di una cinquantina di sedie in uno di quei stand aperti, esposti al via vai del gran bazar dei lettori. Il rumore di fondo era molto fastidioso perché si era in un luogo non isolato, esattamente come al mercato.Una cinquantina di sedie sì e no ma venticinque presenti, e neanche, se andò bene. Tema: il libro Contro la Lettura – Per una pedagogia del semianalfabetismo. Questo aneddoto è più un documento dell’ultimo Labranca, una metafora del suo sopravvivere, o l’ennesimo happening firmato Maison Labranca?

Ma Labranca, come sappiamo, poco dopo finì la propria esistenza nel modo già citato. Ora pare risorgere un interesse per un autore che sicuramente avrebbe meritato più attenzione in vita. Ma è una vecchia storia nel mondo delle lettere. E con tutto il vociare che s’inizia a sentire sul nome di Labranca, pare quasi alzarsi più alta una vociona che fa: E statte zitto, a Cicalò! come reguardiva Nando Mericoni, ovvero Santi Bailor American Attraction.

Per leggere la recensione di Lorenzo Marchese a Le alternative non esistono, dal numero di luglio-agosto 2020, clicca qui!