di Lisa Pelizzon
Le classifiche italiane dei libri più venduti degli ultimi anni continuano a riportare il titolo di un romanzo capace di resistere al tempo e a moltissime critiche, quello dell’autrice francese Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, pubblicato da E/O nel 2018 e giunto nell’estate 2020 alla ventesima ristampa. Secondo Sandra Ozzola, cofondatrice di E/O, la decisione di pubblicare il romanzo venne presa quando in Francia non era ancora un best seller. All’inizio il «libro aveva un ritmo tutto suo», ma poi, appena è uscito il formato tascabile e si sono visti i risultati di un chiaro passaparola tra i lettori, il romanzo è balzato in cima alle classifiche. Ma chi è Valerie Perrin, e che cosa accade nel suo universo letterario per meritarsi un successo di pubblico così forte? Valérie Perrin nasce nel 1967 a Gueugnon in Borgogna. Lì, a diretto contatto con la vita di provincia che dichiara di amare moltissimo, intraprende la carriera di fotografa e poi quella di sceneggiatrice. Il suo nome, tutt’altro che sconosciuto nella scena culturale francese, appare nei titoli di coda di alcune tra le più importanti produzioni cinematografiche del paese accanto a quello del regista e marito, Claude Lelouche, che racconta di quando, nel corso di un’intervista nel 2006, gli fu consegnata una lettera di quella che sarebbe diventata sua moglie, e ne rimase stregato.
«In origine ci sono solamente una donna, un nome e l’ultima frase del romanzo». Tutto il resto sorge senza programmi, lasciandosi trasportare dalle intuizioni nei confronti del suo personaggio principale. Nel caso de Il quaderno dell’amore perduto si trattò di un processo lento ma progressivo, maturato nel corso di quindici anni di scrittura. Nelle interviste rilasciate finora, l’autrice descrive la genesi del romanzo come un «portare dentro» un’idea, un’immagine, il nome di un personaggio; materiale che diventa storia attraverso il lavoro di ricerca sul campo, di ricostruzione a ritroso e di trasposizione in letteratura delle tecniche di fotografia cinematografica a cui Perrin era abituata. Il primo grande salto dell’autrice, non a caso, riguarda il genere. Nel romanzo occorre mettere tutto quello che in uno scenario c’è già: luce, abiti, colori, movimenti dei personaggi, espressioni e tantissimi altri aspetti che l’immagine può offrire in un unico colpo d’occhio. Quella di Perrin è una descrizione di stampo cinematografico dove intervengono per narrare due risorse chiave: il campo e il fuoricampo, ciò che si vede e ciò che rimane occulto.
Come sostiene il critico Philippe Dubois, davanti ad una fotografia lo spettatore può osservare solamente una porzione della realtà, risultato dell’interpretazione soggettiva del mondo che il fotografo manifesta grazie all’inquadratura; ma quel mondo non è tutto, non è completo, continua attorno a lui oltre il limite del campo. Questi due spazi, ciò che è nell’immagine e ciò che non si vede, non se ne stanno isolati ma comunicano tra loro in un gioco di continue allusioni. Valérie Perrin usa la descrizione in maniera analoga: presenta al lettore una scena e la riempie di dialoghi, di ambienti, degli oggetti e delle sensazioni di cui ha bisogno per poi aggiungere qualcosa, nient’altro che uno scintillio appena percettibile, che cattura il suo sguardo altrove.
Ci si potrebbe chiedere perché, come ha spesso dichiarato Perrin, il lettore dovrebbe aver bisogno di essere preso per mano e accompagnato: a volte è la vita stessa che ci obbliga a intraprendere viaggi che non avremmo mai voluto iniziare. Viaggi reali, per le strade della campagna francese, o simbolici, in cui l’essere umano si trova a fare i conti con vicissitudini che annientano la voglia di vivere e rendono impossibile la ricerca della felicità. O così potrebbe sembrare. Le protagoniste dei romanzi di Valérie Perrin sono donne di età, professioni e interessi diversi. I loro nomi sono Justine, Hélène, Violette e Irène. Nel Quaderno dell’amore perduto, Justine Neige è aiuto-infermiera in una casa di riposo di Milly, un paesino nel cuore della Francia; adora il suo lavoro e in modo particolare ascoltare ciò che le racconta Hélène, un’anziana residente che cattura la sua attenzione con la storia di un grande amore che Justine decide di trascrivere in un quaderno azzurro. In Cambiare l’acqua ai fiori, Violette Toussaint è invece la guardiana del cimitero di Brancion-en-Chalon in Borgogna; non si limita ad aprire e a chiudere i cancelli del cimitero, ma dedica buona parte del suo tempo ad accogliere e consolare le persone che hanno perso qualcuno, ama addirittura tenere un registro delle sepolture e dei discorsi tenuti durante i funerali.
Queste donne, pur essendo molto diverse tra loro, hanno in comune l’aver vissuto una tragedia familiare che in un dato momento delle loro vite le ha poste di fronte a una scelta: soccombere o sopravvivere. Come dice Violette, tutto dipende da noi: «Sono stata molto infelice, addirittura annientata, inesistente, svuotata. (…) Ma siccome l’infelicità non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata». Parole, queste, che funzionano come la punta di un iceberg, la cui parte visibile è il risultato di un lungo e complicato lavoro dell’autrice sul personaggio e del personaggio su se stesso; parole che si riflettono in azioni scontate solo all’apparenza e in una vera e propria poetica dei piccoli gesti. Ecco, allora, una possibile chiave d’interpretazione allo smisurato successo di questo libro: Cambiare l’acqua ai fiori è un’analogia della nostra capacità di trasformazione e di crescita, un invito a spostare lo sguardo su quell’altrove che molto spesso ignoriamo.