Dal 17 al 22 settembre avrà luogo la diciottesima edizione dei Dialoghi di Trani, durante la quale verrà premiato il vincitore del Premio Megamark. Per avvicinarci alla finale, la redazione del Premio ha preparato una domanda ai cinque autori coinvolti. La recensione in calce è a cura dell’Indice dei Libri del Mese.
A quale lettore hai pensato mentre scrivevi? A chi è destinato il tuo libro?
Bé, diciamo che questa domanda si presta a risposte multiformi/contraddittorie, il che non è necessariamente un problema. La prima cosa che mi viene in mente è che ho scritto questo libro per me. Come ho ripetuto spesso, Benevolenza Cosmica è specularmente collegata al periodo complicato vissuto dal sottoscritto qualche anno fa, e dal quale ha origine lo spunto primordiale del romanzo: se una persona a cui va tutto storto è comprensibilmente infelice, è automaticamente consequenziale che sarebbe in estasi solo perché tutto gli va benissimo? Ho quindi traslato l’opposto delle mie traversie contingenti in una Londra solo lievemente futuristica, affidandone la (tentata) risoluzione a un protagonista che mi somiglia parecchio, godendomi le sue paradossali disavventure tanto quanto mi ero lasciato precedentemente annichilire dalle mie. Ricordo che in quell’estate del 2015, teatro temporale della prima stesura, ero così divertito dal dipanarsi della storia che, dovunque fossi, non vedevo l’ora di tornare a casa per mettermi a scrivere. Credo di non affermare nulla di rivoluzionario nel sostenere che qualunque forma d’arte abbia una valenza terapeutica: bé, nel mio caso è stato doppiamente vero.
Un secondo aspetto della domanda pertiene al cosiddetto “lettore ideale”, sulle cui ipotetiche reazioni specifiche ogni scrittore rifletterebbe mentre scrive. La mia lettrice ideale è Silvia, la mia compagna, alla quale ho dedicato Benevolenza Cosmica, e che nel sopra-alluso periodo complicato è stata un sostegno fondamentale. L’aspetto divertente del tutto è che il suo contagioso entusiasmo per la vita sembra raffreddarsi lievemente quando si tratta di valutare i miei scritti. Silvia non è un’amante appassionata dello stile massimalista e vagamente magniloquente di certa letteratura postmoderna (ai cui epigoni sono spesso associato) ma dei suoi gusti, più o meno discordi dai miei (gli unici scrittori su cui convergiamo senza troppe riserve sono Philip Roth e Cormac McCarthy), non mi lamento troppo: per uno scrittore agli esordi è sempre produttivo avere un feedback misurato da parte delle persone che ama e stima di più.
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Il terzo aspetto è legato a un paio di articoli sul romanzo apparsi su altrettanti quotidiani. I miei recensori hanno sottolineato che le vicende di Kurt O’Reilly, il protagonista di Benevolenza Cosmica, l’uomo a cui va tutto benissimo ma ha l’ardire di lamentarsene, rappresentano non tanto (o non solo) le contorsioni emotive di un tizio alla ricerca di un equilibrio improvvisamente sovvertito da vicende surreali (la qual cosa, nelle intenzioni dell’autore, costituiva forse una metafora amplificata della ricerca di senso che conferisce dignità alla vita di chiunque), ma sembrano disegnare una critica alla ricerca spasmodica di una “vita perfetta”, che la spinta tardo capitalistica occidentale e il recente avvento dei social sembrano aver elevato a esigenza psichica inderogabile nell’uomo comune di questo primo scorcio di XXI secolo. Sotto questo punto di vista, il mio romanzo sarebbe una satira sottilmente esemplare dell’impulso all’ostentazione parossistica tramite Facebook/Instagram/Twitter di vite normalissime gabellate per straordinarie tramite l’astuta selezione di foto e testi; satira che avrei espresso, anche qui specularmente, tramite la narrazione delle estemporanee vicende straordinarie di un tizio normalissimo. Era mia intenzione offrire al pubblico una morale del genere?
Francamente no. Quantomeno: non in modo conscio, che è un altro modo di ribadire un Assolutamente No. Ma apprezzo l’ennesima dimostrazione che i sottotesti di un romanzo sono solo in minima parte appannaggio dell’autore, e che chiunque credevo fosse il destinatario finale della mia solidarietà, della mia compassione (o della mia satira), probabilmente appartiene a un sottoinsieme molto più ampio di quanto immaginassi.
Fabio Bacà – Benevolenza cosmica
recensione di Matteo Moca
La bella fotografia di Thierry Bouët che campeggia nel giallo vivo della copertina di questo libro ritrae un uomo che prende il sole a Invalides a Parigi, probabilmente durante una pausa pranzo dal lavoro se si asseconda l’indizio offerto dalla camicia e dalla cravatta. Eppure quest’immagine rilassata di un uomo inondato dalla luce del sole si concilia solo in chiave antitetica rispetto al protagonista del romanzo Benevolenza cosmica, esordio letterario di Fabio Bacà. Quest’uomo si chiama Kurt O’Reilly e vive a Londra dove lavora, con un’importante posizione apicale, per un’agenzia governativa per la quale si occupa di dati statistici. Le sue giornate sono completamente pervase dal lavoro, il telefono squilla di continuo (“una volta ogni diciotto minuti in media”), gli appuntamenti si sovrappongono e sembra che il tempo non sia mai sufficiente: Kurt si trova così a ritagliarsi dei momenti molto rapidi per la moglie e per gli amici e ad annaspare tra le strade di Londra, una città splendidamente ritratta da Bacà proprio nel suo flusso instancabile. Anche a causa di una deformazione professionale che lo porta ad interpretare ogni momento della giornata in chiave statistica scartabellando dati e sciorinando probabilità sulle cose che accadono, il protagonista rimane colpito da un fatto a cui non riesce a dare spiegazione: da qualche mese a questa parte ogni cosa gli va per il verso giusto, i tassisti si mettono d’impegno per non fargli pagare le corse, i suoi soldi in mano ad un agente di finanza improvvisamente e per motivi inspiegabili aumentano in maniera vertiginosa, un acquirente vuole ricomprare la sua macchina dandogli il doppio di quello che lui ha speso e, ritrovatosi in mezzo ad un rapimento, viene per sbaglio ferito lievemente da un agente di polizia, piccolo incidente che gli porta un risarcimento di diverse decine di migliaia di sterline. Sono questi solo alcuni degli avvenimenti positivi che lo travolgono, ma una mente calcolatrice come la sua non riesce a farsene una ragione, tanto che la sua visione statistica e matematica del reale inizia a vacillare: “credevo di non dover ricorrere alle stesse affannose consolazioni cui attingono gli altri esseri umani mentre annaspano in un tratto impetuoso dell’esistenza, ma a quanto pare sbagliavo. Ci sono cose per le quali non pretendere una spiegazione è impensabile”.
Questa spiegazione non può però essere ricondotta ad alcun modello matematico e il romanzo si snoda così vivacemente attorno alla ricerca di un principio ordinatore che sarà rintracciato dal disperato protagonista nel meccanismo del karma: se a Kurt tutto va bene vuol dire che a qualcuno tutto va male e così è necessario trovare questa persona a Londra per riequilibrare questo innaturale e fastidioso scompenso. Bacà costruisce una impressionante galleria di personaggi stravaganti, alcuni solo fugacemente tratteggiati, altri ricorrenti come la segretaria del protagonista, ognuno però caratterizzato in maniera funzionale rispetto ad una storia che si ricollega tanto al romanzo psicologico, azzeccata la scelta di una narrazione in prima persona ottimamente padroneggiata dall’autore, quanto al romanzo d’azione. La storia di Kurt si condensa in una quête che presto esula dalle urgenze più concrete, con il romanzo che si trasforma così in un’analisi sottile riguardo alle occorrenze della vita e all’atteggiamento dell’uomo nei loro confronti: “se ti scoraggi nel giorno dell’avversità, la tua forza è poca” recita un versetto dei Proverbi riportato da Bacà e sembra forse stare proprio qui il nocciolo più profondo di questo romanzo.