di Mario Marchetti
Il comitato di lettura (costituito da una sessantina di membri), fra 889 concorrenti ne ha selezionati undici, suddivisi quest’anno fondamentalmente tra Italia settentrionale (5) e Italia centrale (4); c’è un solo finalista del Sud, precisamente di Napoli, ma residente per lavoro a Venezia, un altro è del sassarese. Quest’anno compaiono in particolare tre dei tanti giovati italiani residenti all’estero per lavoro (Martino Costa in Giordania e Alessio Orgera a Madrid) o per studio (Maddalena Fingerle a Monaco di Baviera). Simili dati non fanno che certificare il carattere nazionale del Premio e anche la sua capacità attrattiva sulle nuove generazioni cosmopolite per scelta o per necessità. Le età variano dai 27 agli 81 anni, con una netta prevalenza di trenta/quarantenni (sette), tradizionalmente la fascia più partecipe al Premio; ma ci sono anche tre finalisti più giovani (due di 27 anni e uno di 29); e, infine, a suggello di un’altra specificità del Premio, anzi di un suo vanto, l’essere aperto a ogni età, un autore ottantunenne ‒ e la cosa ci fa molto piacere. Le donne in finale sono quattro, corrispondendo percentualmente alla partecipazione femminile al concorso.
Ma veniamo agli undici prescelti. Trovare tra di essi un filo comune non è agevole: di certo, però, nessun testo è consolatorio o programmaticamente commerciale. Tutti affrontano, magari in chiave indiretta, nodi esistenziali o tematici di rilievo. In particolare tre titoli ‒ Schikaneder e il labirinto di Benedetta Galli, Oceanides di Riccardo Capoferro e Vita breve di un domatore di belve di Daniele Santero ‒ paiono esulare da un immediato rispecchiamento o coinvolgimento nella realtà odierna veleggiando in altri tempi e in altri luoghi, con una sensibilità colta e citazionistica di gusto postmoderno. Brillante è in Schikaneder e il labirinto la ricostruzione di un tassello di realtà settecentesca, viennese: nel microcosmo del teatro che aveva visto la rappresentazione del Flauto magico vediamo in azione i sodali d’arte di Mozart che dopo la sua morte vorrebbero mantenerne viva l’ispirazione. Missione impossibile evidentemente, ma che dà vita a un caleidoscopico e umanissimo rondò. Vita breve di un domatore di belve ricostruisce con grande ironia e acribia documentaria le fortune e sfortune del circense Upilio Faimali da Gropparello. La sua vita attraversa tutto l’Ottocento toccando anche Parigi e la Francia, allora centro e cuore di ogni desiderio. Di fronte a noi, in sotterranea interlocuzione con l’oggi, si dispiega una sagace panoramica dell’esotismo e dei brividi borghesi dell’epoca. L’avvolgente prosa di Oceanides ci immette nel turbinoso universo dei viaggi di scoperta e di rapina seicenteschi, sulla scia di bucanieri alla De Foe. Ma qui, in una mise en abîme citazionistica, vi si aggiunge, ed è la sua peculiare cifra, un malioso elemento fantastico e una metafisica ansia conoscitiva. Quale mistero nasconde il lago in cui gli splendidi uccelli anfibi dal piumaggio cangiante paiono sopravvivere al tempo e alla malattia? Ci ritroviamo nell’Ottocento con Sei colpi al tramonto di Vanni Lai. Ma si tratta di un Ottocento ricostruito secondo i canoni del western all’italiana, sia pur storicamente stratificato. Il luogo è una Sardegna arcaica, fredda e inospitale che diventa, sull’ordito di una storia di vendetta, il palcoscenico di una violenza senza fine e senza remissione, un incubo tarantiniano, chiara proiezione del sentire distopico odierno. Con I martiri di Alessio Orgera passiamo alla storia ‒ reale ‒ dell’ultimo Novecento, ancora vicinissima a noi nelle sue conseguenze. Il cronotopo è quello del 1989 in Romania: la caduta di Ceauşescu. In un’atmosfera cupa e desolata assistiamo agli avvenimenti attraverso la coscienza divisa di un giornalista della zona grigia. A lettura ultimata ci si pone la domanda, che può valere per tanti altri casi: cambiamento reale o operazione di maquillage di un sistema che si autoriproduce? Al tema di bruciante attualità degli inadatti e degli avanzi umani, frutto avvelenato delle attuali politiche economiche, arriviamo con Trash di Martino Costa, dominato dalla visionaria immagine della spazzatura urbana. Un romanzo corale che attorno a uno sciopero degli addetti alla raccolta rifiuti in una città del nord mette in campo una serie di vividi personaggi umiliati dalla vita, extracomunitari, ex-tossici, operai a rischio, lavoratrici delle pulizie e del sesso. Ma non mancano, a tirare le fila, gli uomini di potere. Sempre di marginali, ma con tutt’altro tratto si parla nel linguisticamente scintillante Giardino San Leonardo di Gian Primo Brugnoli. Qui, in un ghetto di viuzze attorno a una superstite e gentile area di verde metropolitano, si pratica l’arte della sopravvivenza. Ogni mezzo è buono. E tutti li pratica o li fa praticare Papi Moana la vitalistica e abietta eroina, insieme prostituta e cartomante, mezzana e collusa con ladri e spacciatori, il cui cuore batte solo per i suoi tanti animali domestici. Non più fiorentine cronache di poveri amanti ma cronachette bolognesi truci e meno truci. A tematiche esistenziali e psicologiche ci conducono gli ultimi quattro titoli. La sostanza instabile di Giulia Lombezzi è quella di una bomboletta da writer che scoppiando provoca il panico in piazza Sempione a Milano tra la folla che assiste a un match calcistico su grande schermo. Ma è anche quella delle coscienze. Ognuno nel caos e nel delirio che si crea cercherà di salvarsi a suo modo: la situazione farà emergere istinti e debolezze ignorate. Tutti da quell’esperienza usciranno modificati. Da rumore di fondo fanno le paure che dominano la nostra epoca. Il valore affettivo di Nicoletta Verna mette a nudo, con sguardo asettico e implacabile, le devastazioni psichiche che possono generare nei figli le famiglie disfunzionali. La protagonista rosa da un senso di colpa fantasmatico, finisce con l’anestetizzare la propria sensibilità deviandola su pratiche ossessive, come una personalissima raccolta differenziata di rifiuti. Ma la sua anestesia è speculare a qualcosa di più ampio che innerva tutto il nostro mondo. Lingua madre di Maddalena Fingerle affronta un tema di grande originalità. Il protagonista è un giovane altoatesino che d’ufficio dovrebbe essere bilingue e in realtà conosce e pratica in periodi diversi della sua vita l’italiano e il tedesco. Ma qual è per lui la vera lingua madre, quella con cui ci si possa esprimere in modo libero e ci renda soggetti? La sua è l’ossessiva ricerca di uno strumento scevro di ipocrisie, di convenzioni, di superficialità: senza risposta se non drammatica, sottraendosi al vivere comune. Infine, con Ma’ di Pier Lorenzo Pisano ci troviamo gettati in una favola nera dall’atmosfera alla fratelli Grimm. Tutto viene suggestivamente messo in scena in modo deformato e dal basso, nella prospettiva del bambino protagonista: Gabriele reagisce al lancinante dolore della scomparsa della madre, fatto per cui si sente in colpa, trasformandola in un’entità numinosa e fagocitatrice che abita il bosco e a lei cerca di riunirsi fuggendo di casa. Sarà inevitabile anche qui una tragica fine.
Gli stili e le scritture sono mediamente di buon livello, per coerenza e capacità di evocazione: si va dalla lingua gustosamente creativa dagli echi gaddiani di Giardino San Leonardo alla scrittura espressionistica di Ma’, dalla prosa avvolgente e raffinata di Oceanides a quella elegante e ironica di Vita breve di un domatore di belve, dalla brillantezza teatrale di Schikaneder e il labirinto alla lingua sporca ed efficace di Trash, dalla lingua attenta e curata di Lingua madre a quella suggestiva e imperfetta di Sei colpi al tramonto e dei Martiri, dalla lingua corrente, moderna senza ricercatezze, della Sostanza instabile a quella secca e incisiva del Valore affettivo.
Un panorama vario che ci conforta a continuare, tenendoci naturalmente sempre aggiornati sui mutamenti che avvengono nel campo della scrittura e dell’editoria.