Simone Masoni (1980) – No tech
Erano le nove del mattino del suo diciottesimo compleanno. Allungando la mano intorpidita spense la sveglia e con un gesto rapido accese il cellulare. Si rigirò nel letto e restò in attesa delle notifiche. L’anno prima aveva ricevuto un migliaio di messaggi ma questo era un compleanno speciale, se ne aspettava molti di più. Passò un minuto. Niente. Si sporse fuori dalle coperte e afferrò il cellulare. Possibile che nessuno gli avesse fatto gli auguri? Non c’era campo. Rotolò giù dal letto e raggiunse il computer. Aprì una finestra del browser: Nessuna connessione a Internet. “Accidenti” pensò “di nuovo problemi di linea”. Si trascinò in soggiorno e il router lampeggiava all’impazzata. Chiamò sua madre a gran voce, ma nessuno rispose. Poi notò il foglio sul tavolo:
Buongiorno tesoro, tanti auguri. Al notiziario delle 7 hanno detto che il Consiglio ha approvato un techdown straordinario per tre giorni a partire da oggi. Non ti agitare, resisti. Ti lascio due pastiglie in caso di necessità. A stasera, TVB. Mamma.
Un techdown, proprio il giorno del suo diciottesimo: isolato dal mondo per tre giorni. Riconobbe il sudore alle mani e il fiato corto, istintivamente spalancò la finestra: un attacco di panico. Afferrò una pastiglia e la ingurgitò. In pochi minuti un torpore diffuso lo avvolse, tanto da non rendersi conto né delle urla al piano di sopra né del ragazzo che si era lanciato nel vuoto, passandogli davanti, con stretta tra le braccia la sua PS7.
Quando si svegliò erano quasi le undici. La pastiglia l’aveva trascinato in un abisso senza sogni, il corpo abbandonato sulla poltrona e il cellulare stretto in mano. Il risveglio era sempre un’esperienza traumatica, riprendere coscienza di sé e del mondo circostante era faticoso. Spalancò gli occhi e rivolse lo sguardo allo schermo lampeggiante, un promemoria:
Ore 12 – Arruolamento
Arruolamento. Poltech. Maggiorenne. Oggi. Adesso. “Ma quanto ho dormito?”. Techdown. Sussultò. Aveva impostato quel promemoria settimane prima, come avviso nel caso si fosse attardato a rispondere ai messaggi di auguri. Doveva mantenere la lucidità e sbrigarsi, aveva meno di un’ora.
Si sciacquò con acqua gelata e indossò la divisa bianca del diploma; solo i maschi maggiorenni diplomati potevano aspirare a una carriera nella Poltech, la Polizia Tecnologica. Mise al polso l’orologio di suo padre, essenziale durante i giorni di techdown, quando era vietato l’utilizzo di dispositivi tecnologici. Cercò di domare un paio di riccioli ribelli e ignorò il brontolio allo stomaco; avrebbe sopportato il disgustoso sapore metallico, residuo della pastiglia, fino a pranzo. Afferrò la giacca e scese di corsa le scale. Uscì dal portone alle 11:18.
La fermata del tram era sul lato opposto. C’era la folla dei giorni di techdown. In assenza di connessione non si poteva lavorare da casa e il tram veniva messo in funzione per raggiungere gli uffici. Ai lati della banchina spiccavano con la loro divisa nera e gialla due poliziotti. Se qualcuno si fosse azzardato a maneggiare un cellulare, un tablet o qualsiasi altro dispositivo, sarebbe stato arrestato all’istante. Li guardò fiero sebbene il suo sogno fosse il plotone d’assalto. Voleva contribuire a sgominare la Resistenza, un gruppo di criminali che utilizzavano e distribuivano tecnologia proibita. Erano abili a nascondersi tra la gente comune e chiunque poteva esserne membro, persino il vicino di casa.
Attraversò la strada e avvicinandosi iniziò a scrutare i passeggeri in attesa.
Il ragazzo in prima fila aveva lo sguardo nervoso di un cane braccato, teneva una mano in tasca e batteva il piede. Poco più in là un signore con la valigetta fissava il vuoto, immobile, senza dubbio l’effetto di una pastiglia; l’ancora di salvezza nei momenti disperati. Aveva lasciato a casa la sua seconda pastiglia, non voleva rischiare di arrivare all’arruolamento con la mente annebbiata. E comunque aveva il suo fidato cellulare; anche se non c’era rete sentire il suo mondo tra le dita gli dava sicurezza. Infilò la mano nella tasca della giacca per toccarlo: non c’era. “Oh cazzo, è rimasto a casa”. Frugò freneticamente nelle altre tasche ma riuscì a dissimulare il panico. Il quadrante al polso segnava le 11:22. Il foglio appeso indicava il tram successivo alle 11:25. “Devo andare a prenderlo, ci vorrà un minuto”.
Corse in casa, lo cercò negli altri pantaloni ma non c’era. Guardò in bagno, niente. Tornò in camera e lo trovò, avvolto tra le coperte. Lo infilò in tasca e lo tenne stretto mentre correva giù per le scale. Uscì dal portone alle 11:26, giusto in tempo per vedere la coda del tram allontanarsi.
Non si diede per vinto. Il successivo sarebbe passato alle 11:35. Ci volevano quindici minuti per arrivare in piazza Centrale, da lì cinque minuti a piedi fino all’ingresso della Poltech: era un po’ in ritardo ma ce la poteva fare.
Il tram arrivò puntuale. Dovette sgomitare per riuscire a salire. Teneva la mano in tasca, ben stretta sul cellulare.
Alle 11:50 il tram raggiunse la pensilina di piazza Centrale. Quel percorso di poche fermate l’aveva reso insofferente. “Forza, veloci, devo scendere” bofonchiò mentre spingeva cercando di raggiungere l’uscita. Quando mise il piede sulla banchina gli passò davanti un gruppo di ragazzi con la divisa del diploma. Sorridendo li seguì con lo sguardo. Era così assorto che non si accorse dell’arrivo della ragazza in monopattino. Avanzò di un passo e fu travolto da un tornado di capelli rossi. Un colpo tremendo. Fece una mezza giravolta poi perse l’equilibrio e rovinò a terra. Sentì dei lamenti alle sue spalle. Si voltò e vide la ragazza, riversa sull’altro lato del marciapiede, una mano stretta sul gomito e la borsa a tracolla aperta. Accanto a lei dei libri sparpagliati, un mazzo di chiavi e un cellulare. Istintivamente portò la mano alla tasca e represse un’ondata di panico: era il suo cellulare.
Allungò un braccio per recuperarlo prima che qualcuno lo notasse, ma una mano lesta lo anticipò. Sollevò lo sguardo e fece appena in tempo a vedere un ragazzo, in divisa verde da cadetto, fuggire a passo spedito tra la folla.
Se non ci fosse stato il techdown avrebbe gridato “Fermatelo, mi ha rubato il cellulare!”. Non sarebbe finita bene per il ladro. Ma in quel momento doveva tacere, una sola parola e l’avrebbero arrestato.
Si rialzò e in preda al panico si mise a correre. Non poteva essere andato lontano. Raggiunse la scalinata che scendeva verso il centro della piazza, guardò in basso e lo vide. Il ladro era quasi in fondo, bloccato dalla folla. Ripartì tagliando per il giardino adiacente, lo avrebbe anticipato. Quello, probabilmente, pensava di averla fatta franca, perché si guardò indietro e rallentò il passo. Quando si voltò se lo trovò davanti e trasalì. Scattò di corsa verso il lato opposto della piazza. Ricominciò l’inseguimento. Alcuni ragazzi, in coda all’entrata della Poltech, pensarono a due ritardatari, ma poi li videro proseguire. Erano le 11:59.
Inseguì il cadetto attraverso l’arco d’accesso al quartiere vecchio, lungo il viale principale.
“Devo raggiungerlo adesso, se si infila tra i vicoli è un casino” rifletté aumentando il passo.
Quello, come se l’avesse sentito, svoltò a destra in una viuzza stretta e proseguì fino in fondo. Lo vide di spalle superare con un balzo un muretto e saltare di sotto. Raggiunse il muretto e guardò giù: c’era un vicolo trasversale, ma della divisa verde nessuna traccia.
Si sedette ansimando. Ad ogni respiro sentiva i polmoni arrivargli in gola. La testa gli scoppiava e una fitta fortissima al fianco lo opprimeva. Il ladro si era dileguato insieme al suo prezioso cellulare. C’era tutta la sua vita lì dentro, era il suo canale di comunicazione con il mondo. Si sentiva nudo e impotente, una rabbia profonda gli opprimeva lo stomaco. Il sudore gli colava dalla fronte, puzzava terribilmente e la divisa bianca era lurida.
Strinse le mani così forte che le unghie gli entrarono nella carne e sentì distintamente il dolore salirgli alla testa.
Se almeno avesse avuto la pastiglia avrebbe potuto spegnere il cervello. Era talmente agitato che tremava visibilmente.
Improvvisamente scattò in piedi e si sporse dal muretto, sicuro di aver sentito lo squillo del suo cellulare. “Da dove viene? Quel maledetto lo sta usando?”.
L’allucinazione fu provvidenziale perché poco distante riconobbe la divisa verde: era di spalle davanti a una porta di metallo e stava armeggiando furiosamente con la serratura. “Eccolo là, il bastardo”. Premette una mano sul fianco e, malgrado il dolore, scese le scalette laterali lentamente, senza far rumore. Sentì la maniglia scattare e si fiondò nel vicolo. Il cadetto era entrato e la porta automatica si stava chiudendo. “Non mi scappi, stronzo”. Strinse i denti, con un balzo infilò un piede in mezzo ed entrò.
Si ritrovò in un corridoio stretto. Pareti e pavimento di cemento grezzo. La vista si perdeva nell’oscurità da entrambi i lati. Gli occhi gli bruciavano. La puzza di muffa gli penetrava nel naso e gli rivoltava lo stomaco.
Lasciò che la porta si chiudesse e rimase immerso nel buio. Sentì un rumore di passi provenire da destra. Si lasciò guidare seguendo con la mano il profilo ruvido del muro. “Ti prenderò, bastardo, e te la farò pagare, costi quel che costi” ringhiò tra i denti.
Di colpo il rumore dei passi cessò. “Mi vuole fregare, ma io non mi muovo”. Si mise in attesa.
Avvertì un leggero spostamento d’aria poi una botta tremenda alla guancia destra e cadde a terra. In bocca aveva il sapore metallico del sangue e con la lingua si accorse che gli mancava un dente.
Rimase a terra e protese un braccio per proteggersi da ulteriori colpi. Nel buio risuonò una risata stridula.
«Ahah, drogato. Vuoi il tuo cazzo di cellulare? Ci tieni tanto al tuo cazzo di cellulare, eh?»
Una fiammella scintillò rischiarando l’oscurità. Riconobbe il cadetto: aveva un ghigno malefico dipinto sul volto. Lasciò cadere il cerino che stringeva in mano e appiccò un fuoco dentro un secchio.
Stava ritto in piedi, a un paio di metri, nella sua divisa scura e faceva dondolare il cellulare al di sopra delle fiamme. Dall’altra mano pendeva la sbarra con cui l’aveva colpito.
«Lo vuoi davvero il tuo cazzo di cellulare? Vieni a prenderlo se ci riesci!». Una risata sadica riecheggiò nel corridoio. Poi la mano lasciò la presa.
Il suo mondo cadde nel vuoto e con una traiettoria perfetta fu inghiottito dal fuoco.
Il cervello si spense, non sentì più niente se non la rabbia esplodergli in pancia e farsi potente.
Con un guizzo improvviso saltò in piedi e caricò il cadetto colpendolo con una spallata al petto. Lo fece sbattere contro il muro e la sbarra cadde a terra fragorosamente. D’istinto sferrò un calcio al secchio e disperse il fuoco sul pavimento: in mezzo c’erano i resti del suo defunto cellulare. Sentì una mano stringergli il collo. Si divincolò e lo afferrò per i capelli. Iniziò a sbattergli la testa contro il muro. Più e più volte, voleva disintegrarlo. Si fermò soltanto quando sentì la scatola cranica spaccarsi e la mano inzupparsi di sangue e materia grigia. A quel punto lo lasciò cadere al suolo e iniziò a prenderlo a calci. Poi si fermò. L’adrenalina gli pulsava nelle vene, giustizia era fatta.
Improvvisamente si accesero delle lampade sul soffitto e il corridoio si illuminò.
Era sfinito. Sulle mani aveva ciuffi di capelli mescolati a grumi rossi e biancastri e le maniche della divisa erano intrise di sangue. Guardò a terra e vide come aveva ridotto quel bastardo: uno spettacolo raccapricciante. La tensione ruppe gli argini e iniziò a vomitare.
In fondo al corridoio la porta si aprì. Riconobbe la sagoma di un poliziotto in tenuta d’assalto. Non cercò di fuggire, non sarebbe servito a niente. Il rumore pesante degli scarponi si fece sempre più vicino. Il poliziotto lo raggiunse, lo fissò, abbassò lo sguardo sul corpo fracassato. Tornò a fissarlo. Poi con voce ferma disse:
«Complimenti cadetto Marlin, prova superata. Si consideri arruolato.»