Germano Antonucci (1975) – Ma davvero i mangiasbagli sono golosi di geografia?
La bambina attraversò di corsa l’atrio della Stazione, scalpicciando sul marmo. Stavolta li aveva sentiti, era sicura. Proprio là sotto. Si fermò all’angolo tra l’Info Point e l’ingresso della galleria commerciale, ancora devastata per i saccheggi del Secondo Crollo Termico, e si sedette a terra. Si domandò se da giù, qualche volta, battessero dei colpi. O se bisbigliavano e basta, con le loro voci filamentose.
«Zuppa con i savoiardi?» esclamò.
E poi, seria: «Termosifone».
La voce rimbalzò tra le mura della Stazione come una pallina di gomma. Dal sottosuolo, però, non arrivò alcun segnale. La bambina non si perse d’animo. Si sfilò il fermaglio e accostò l’orecchio a terra. Con i palmi a ventosa e la bocca premuta sul pavimento, sussurrò: «Frutto giallo asprissimissimo? Cenerentola».
Niente, non risposero, forse avevano paura – non si fidavano.
*
«Lisa, vieni qua» gridò Rocco.
Le aveva detto di stare alla larga da quell’uomo. Si faceva chiamare Monkey Joe, o qualcosa del genere. Quella mattina era uscito nella neve, era rimasto fuori per più di due ore, pensavano si fosse perso. Quando era rientrato, battendo gli scarponi per scrollarsi il freddo di dosso, non aveva spiccicato parola. Si era rannicchiato nel sacco e si era addormentato. Adesso era lì, immobile, i capelli unti, la fronte annerita, una confezione di orsetti Haribo sotto il braccio. Non aveva nemmeno chiesto se ci fossero novità, se qualcuno avesse notizie del Treno.
Lisa gli toccò la spalla, piano, per controllare se fosse vivo, ma non appena si accorse che si muoveva fece un salto all’indietro e corse giù. Andò a sedersi accanto a Rocco.
«Li ho sentiti» disse. «Sono qui».
Rocco mise un pezzettino di pancetta sul coltello, lo scaldò con l’accendino. L’odore del grasso che sfrigolava. Afferrò una scatoletta di mais dallo zaino. Una delle ultime.
«Secondo me, sono venuti per lui» disse Lisa.
«Lui chi?»
«Monkey Joe».
Con un colpo di reni, Rocco voltò la carrozzella e le porse il piattino. Lasciò cadere il coltello tra i giornali, si tirò la coperta sulle gambe. Lisa prese il cibo e guardò verso le scale, verso il mucchio di stracci e respiri che era Monkey Joe. Dal momento in cui quell’uomo era arrivato in Stazione, accampandosi dietro la rampa, aveva cominciato ad avvertire la loro presenza.
«Tu li hai incontrati per davvero?»
«Certo che sì».
«E come ce l’hanno la faccia?»
«Oh. Non hanno mica una faccia. Ne hanno cento. Per ogni sbaglio che fai. Loro arrivano e…».
«Se lo mangiano. Si mangiano lo sbaglio».
Lisa adorava quella storia, la storia dei mangiasbagli. Era stato Rocco a raccontargliela. Nessuno, prima di allora, le aveva mai parlato di quegli esseri magici che si nutrivano di errori. Immaginava lunghi corpi di luce che fluttuavano nel sottosuolo, colorati, guizzanti, elastici. Ogni volta che qualcuno commetteva uno sbaglio, zac!, saltavano fuori e lo divoravano.
«Preferiscono quelli dei bambini, sai?» le disse Rocco. «Gli sbagli dei bambini sono zuccheratissimi. Ecco perché sono golosi di geografia. Le capitali, i confini… si fanno certe abbuffate».
«Davvero?»
Lisa pensò alla scuola. All’ultimo giorno di lezione, che era stato un giorno come gli altri perché nessuno aveva idea che non sarebbero tornati mai più.
«E con gli adulti?»
«Dipende. Se sono sbagli piccoli, funziona uguale. I mangiasbagli ti cancellano l’errore dalla testa, così te lo scordi e non ci stai troppo male. Il problema è che certe volte gli adulti fanno sbagli troppo grossi per…».
«Tipo quelli che hanno liberato il Freddo?»
«Tipo».
«E che succede?»
«Succede che i mangiasbagli finiscono per confondersi, non riescono più a distinguere lo sbaglio dalle persone. E allora saltano su dal sottosuolo e se le mangiano tutte intere».
«Si mangiano le persone?»
«Si mangiano le persone».
Lisa si ritrasse, spaventata. Rocco la fissò con un’espressione minacciosa, poi scoppiò a ridere.
«Tu però non devi avere paura» disse. «I bambini possono sbagliare tutte le volte che vogliono, i mangiasbagli stanno lì apposta. L’importante è non lasciarli gonfiare di sbagli cattivi. Capito? Non lasciarli gonfiare di sbagli cattivi».
*
Quando la bambina si fu addormentata, Rocco spinse le ruote della carrozzella e avanzò nell’atrio. Mosse la testa verso il giaciglio di Monkey Joe, il corpo infilato nel sacco, poi guardò il tabellone delle partenze. Celle vuote, spente, nulla che lasciasse presagire un orario. Una data. Una salvezza.
L’ultimo Treno era partito una settimana prima del loro arrivo, aveva caricato duemila persone in fuga e si era diretto verso Sud. Nessuno sapeva se ce l’avessero fatta. Nessuno sapeva se sarebbero tornati a recuperare gli ultimi.
Guardò Lisa.
Aspettare.
Sperare.
Che altro?
*
La luce del mattino era opaca, il sole assomigliava a una piccola lampadina tremolante e lontana. Monkey Joe puntò dritto verso di loro. Indossava pantaloni da neve e la giubba catarifrangente delle squadre di soccorso.
«Dammi una scatoletta» disse.
Rocco allungò il braccio verso lo zaino, lo strinse a sé.
«Non posso».
«Cosa c’hai? Carne? Verdura?»
«Sono per mia figlia».
Monkey Joe si chinò verso di lui, gli alitò in faccia. La crosta sull’occhio destro si era infettata.
«Tanto lo so che non è tua figlia» gli disse. «Dove l’hai presa? È il tuo giocattolino, vero? Il giocattolino dello storpio?»
«Non ti azzardare» sibilò Rocco.
Monkey Joe si raschiò il labbro superiore con gli incisivi. Schioccò la lingua, fissando lo zaino con le ultime provviste: due scatolette di mais e un po’ di carne secca. Nient’altro.
«Mi toccherà uscire, allora» disse. «Per forza».
«Se trovi da mangiare, è tutto tuo».
«Puoi giurarci» disse Monkey Joe. «Quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo. È così che sei abituato, eh?»
*
Lo videro svanire nel bianco rarefatto del viale. Lisa si avvolse la coperta sulle spalle e andò a cercare i mangiasbagli. Sentiva ancora quei fastidiosi nodi alla testa, il freddo alle mani, ma finse che andasse tutto bene. Cercò nella cappella del binario 1, tra gli sgabelli divelti della sala d’aspetto. Non appena le sembrava di avvertire un rumore, un fruscio, qualcosa, lanciava i suoi indovinelli-esca.
«La montagna più alta del mondo?»
E poi: «Kiwi».
Era un trucco. Rocco le aveva spiegato che certe volte i mangiasbagli vanno in tilt. Quanto fa dieci più dieci? Acqua minerale. Da dove viene il latte? Calendario. I mangiasbagli non capiscono se uno lo sta facendo apposta o se invece è suonato in testa, e allora cominciano ad agitarsi nel sottosuolo, a confondersi, a bisbigliare. Ecco, quello è il momento giusto per beccarne uno.
Però quel giorno sembrava non funzionare. Forse i mangiasbagli avevano seguito Monkey Joe. Chissà che aveva combinato, che sbaglio madornale. A Lisa venne in mente ciò che le aveva detto Rocco: si mangiano le persone. Immaginò la scena: saettanti corpi di luce che balzano fuori dal sottoterra e cominciano a girare in cerchio, sempre più gonfi e confusi, affamati, prima di spalancare le grosse bocche colorate e…
Sentì addosso una stanchezza improvvisa.
Vertigini.
*
Era quasi buio quando Monkey Joe rientrò dal lato ovest, con il berretto coperto di neve e la faccia mezza congelata.
«Trovato niente?» gli chiese Rocco.
L’altro gli rivolse un sorriso sghembo. Si batté la mano contro il giubbotto: nascondeva qualcosa. Cibo.
«Quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo» rispose.
Rocco lo scrutò torvo. Si voltò verso Lisa, che si era sdraiata a riposare. Le era venuto un altro dei suoi capogiri. Rocco le sistemò la coperta. Fissò le braccia esili, il viso smagrito.
«C’è ancora qualcuno, là fuori?»
«Qualcuno sì. Nella chiesa».
«E hanno notizie?»
«Dicono che il Treno non arriverà prima di dieci giorni».
Rocco emise un gemito. Era troppo tempo, troppo tempo, troppo tempo. Non avevano provviste a sufficienza.
«Però arriverà» disse.
Monkey Joe sputò a terra.
«Non prima di dieci giorni».
Rocco fissò il cielo oltre le vetrate. I tramonti erano colate di ruggine che coprivano l’orizzonte.
*
Fu una notte cupa, di buio palpitante. Il vento sibilava a tratti. Rocco chiudeva gli occhi e li riapriva, li chiudeva e li riapriva. Calcolava i giorni, i giorni che mancavano, ma il risultato era sempre lo stesso, un’attesa impronunciabile. La voce della bambina non gli usciva più dalla testa: dimmi la verità, giuro che non piango. Le aveva promesso che ce l’avrebbero fatta. Lisa lo aveva abbracciato, per un attimo avevano dimenticato il freddo, la fame, e Rocco aveva capito che avrebbe pagato qualunque prezzo pur di farla salire sul Treno.
Quella era la notte.
Quello il momento.
Doveva solo spingere la carrozzella fin sotto le scale, il resto sarebbe venuto da sé. Con cautela, infilò la mano sotto i giornali. Niente paura, si disse. Non serviva pensare agli errori, a come sarebbero andate le cose se tra il Primo e il Secondo Crollo Termico avesse compiuto altre scelte, seguito altri pensieri. Certe volte la vita fa dei nodi strettissimi, e tocca scioglierli.
Rocco respirò. Lisa si agitava sotto le coperte, forse sognava la Città. La Città com’era prima – prima che il cielo perdesse l’azzurro, che il freddo cancellasse le strade. Il freddo dell’inverno perpetuo, della lama stretta nel palmo.
*
Spalancò gli occhi nella luce del mattino. Mezza intontita di sonno, salì verso i binari, per vedere se nella notte fosse arrivato il Treno. Niente. Camminò sotto l’enorme tettoia d’acciaio. Provò a leggere i vecchi manifesti pubblicitari, ma era come se le parole facessero delle capriole per non farsi acchiappare. A volte, da giù, Rocco la guardava, poi calava di nuovo la testa sul petto.
Era stanco, forse non si sentiva bene.
Lisa si diresse verso la scalinata, scese i gradini a due a due. Arrivata in fondo, si bloccò. Guardò gli scarponi di Monkey Joe. I suoi guanti. Fissò quel vuoto sbagliato, il sacco sottosopra, le cose che c’erano e le cose che mancavano.
Tornò da Rocco, si appoggiò contro il muro.
«Non tornerà» le disse.
Lei sentì come un tonfo. Infilò le mani sotto le gambe.
La neve, fuori, cadeva sulla neve.
«Tanto lo sapevo».
«Cosa… sapevi?»
«Che erano venuti per lui».
Rocco aprì la bocca per dirle qualcosa, la richiuse. I suoi occhi erano due pozzi profondissimi e neri. Lentamente, faticosamente, si chinò verso lo zaino.
«Hai fame?»
Un graffio.
«Sì».
Con un gesto da prestigiatore, estrasse frutta secca, scaglie di cioccolato, due orsetti Haribo. Nella testa di Lisa si formò un pensiero sfuggente. Non ci badò. Prese un orsetto e se lo ficcò in bocca. Era buonissimo. Quando ebbero finito di mangiare il resto, Rocco voltò la carrozzella verso le vetrate, verso il bianco. Tremava, come se in quel corpo devastato fosse in atto un piccolo cataclisma segreto.
«E se i mangiasbagli si prendessero pure me?» le chiese. «Se venissero a mangiarsi il mezzo uomo che sono?»
Lisa guardò il suo volto stanco, sfigurato. Ricordò quello che le aveva raccontato a proposito degli sbagli che non fanno male a nessuno, e di quelli che non si possono perdonare. Allora gli prese la mano e la tenne tra le sue, quella mano grossa e ruvida e calda.
«Capitale della Francia» sussurrò.
Lui la fissò, stranito.
«Caricabatterie».
«Animale con la proboscide».
«Orologio».
Lisa arretrò di qualche passo.
«In che mese è Natale?»
«Papera!»
«Il dito grosso del piede?»
«Trattore!»
Lisa cominciò a correre da un angolo all’altro della Stazione, urlandogli le domande e aspettando le risposte, e poi si metteva in ascolto, ridendo, piangendo, come se quello fosse l’ultimo gioco del mondo, e solo alla fine, con gli occhi lucidi e radiosi, mentre il cielo schiariva e il bianco scintillava attraverso le vetrate, prese un respiro profondo e gridò – adesso che era sicura, gridò: «Se ne sono andati! Lo vedi? Non ci sono più! Non c’è più nessuno, qui!»
La voce echeggiò nello spazio vuoto come una cascata di piccoli cristalli. Rocco le sorrise.
Aspettare.
Sperare.
Cos’altro?
Il Treno sarebbe tornato a prenderli, e finalmente avrebbero potuto andarsene via da lì, via dal freddo che assediava la Città.