Il raffinato collage di agende di uno scrittore mascherato
di Luca Lenzini
Piergiorgio Bellocchio
Diario del Novecento
a cura di Gianni D’Amo,
pp. 613, € 35,
il Saggiatore, Milano 2022
Diario del Novecento è l’ottavo libro di Piergiorgio Bellocchio dopo I piacevoli servi (Mondadori, 1966), Dalla parte del torto (Einaudi 1989), Eventualmente (Rizzoli, 1993), L’astuzia delle passioni, (Rizzoli, 1995), Oggetti smarriti (Baldini&Castoldi, 1996), Al di sotto della mischia (Scheiwiller, 2007), Un seme di umanità. Note di letteratura (Quodlibet, 2020). In questa sequenza il primo titolo, quello d’esordio, è una raccolta di racconti, l’ultimo un’antologia di saggi letterari; gli altri, quasi tutti brevi, mescolano testi pubblicati su periodici (recensioni, interventi polemici, articoli), frammenti di critica del costume, riflessioni di ordine storico, brani autobiografici, scampoli di faits divers, pezzi satirici, dialoghi immaginari e reali, aforismi, fusées, come avviene anche nell’ultimo libro, uscito a breve distanza dalla scomparsa dell’autore (aprile 2022). Si potesse leggere il tutto in un unico volume, salterebbero agli occhi, finalmente, la rilevanza assoluta e la statura dell’opera di un intellettuale troppo spesso confinato nel ruolo, pur così incisivo come fu nel suo caso, di direttore di riviste (“Quaderni piacentini”, 1962-1984; “Diario”, 1985-1993, con Alfonso Berardinelli): ciò che Diario del Novecento infatti certifica, con le sue quasi seicento fitte pagine, è che nell’arco di anni che va dalla fine dello scorso secolo ai nostri giorni, gli scrittori situabili all’altezza di Bellocchio sono decisamente pochi; e anzi, quando nel diario postumo si leggono le osservazioni sui libri estremi di Elsa Morante (Aracoeli, 1982) e Vittorio Sereni (Stella variabile, stesso anno), sentiti come gli “ultimi (o quasi) campioni della letteratura con la maiuscola”, si è portati spontaneamente, come in virtù di un’aria di famiglia, a riconoscere anche in questo Diario uno dei lasciti di una intera epoca, un testimone da ascoltare e interrogare per capire anche il nostro presente. E si noti, sempre in questa linea, il richiamo a Composita solvantur di Fortini (1994) “per il suo significato di estremo appello alla resistenza intellettuale e morale”. Che poi Bellocchio scrittore – non solo polemista, saggista, intellettuale critico: ma scrittore – sia rimasto in ombra, storicizzato anzitempo nella cornice del Sessantotto e dintorni, va in parte addebitato a lui stesso, al “velato sabotaggio” a cui allude una pagina del Diario: insofferenza per la forma-libro, resistenza al trionfo del consumismo, rigetto delle mode, periodi di scoramento, ostilità per ogni forma di esibizionismo hanno certo collaborato alla marginalizzazione della sua figura e del suo lavoro; ma a veder bene, son propri di quel lavoro una movenza carsica e una stratificazione che si dispiegano sulla distanza, in un tempo diverso ed eterogeneo rispetto a quello dell’industria culturale (di cui svela puntualmente superficialità e ridicolaggini). Ma per chi ancora sa leggere, già Un seme di umanità aveva squadernato una lucidità critica e una capacità di interpretazione dei classici, da Stendhal a Dickens, e dei novecenteschi, da Orwell a Pasolini o Céline, senza paragone rispetto agli standard odierni, ridando dignità a una nozione autentica di critica, tanto eticamente orientata quanto spregiudicata e anticonformista nei punti di vista; sicché se con questo Diario Bellocchio ci consegna un autoritratto che è anche, al tempo stesso, una “biografia della nazione”, costruita giorno dopo giorno attraverso il montaggio di testi e di immagini (foto di cronaca, pubblicità, ritagli di giornale), ora non è davvero più permesso addurre scuse per replicare luoghi comuni e classificazioni di comodo.
Il montaggio e l’aspetto “visuale” del libro, il cui imprinting moderno rimanda a una tradizione illustre, da John Heartfield a Bertolt Brecht ad Albe Steiner, sono un tratto specifico che distingue questo Diario dai precedenti lavori, anche se, quanto all’impianto complessivo, esso risulta nell’edizione attuale in parte offuscato rispetto al testo originale, quella “cinquantina di agende” di cui parla nell’Introduzione, puntuale e appassionata, il curatore Gianni D’Amo. Il quale non sarà mai ringraziato abbastanza non solo per il gran lavoro di trascrizione e assemblaggio, ma per aver saputo superare, con paziente intelligenza, le resistenze e i depistaggi dell’autore; e del resto, fa parte della natura e del fascino del libro essere il frutto di un’amicizia fraterna e di lungo corso (già Un seme di umanità era dedicato a D’Amo). Resta che il rapporto tra scrittura e immagine non è, nel Diario, nell’ordine della “illustrazione”, come sembra suggerire l’impaginazione di formato corrente, bensì più complesso e polimorfo: a volte il testo è di commento, ma più spesso è l’immagine a parlare da sola, chiedendo tutto il campo o proponendo uno straniamento che punta a smontare l’ideologia a essa soggiacente. Ora è una pietas silente a fornire l’accento, ora l’ironia o la satira; sempre, comunque, si tratta di un’interazione e di una messa in opera (di citazioni, nel senso del Benjamin di Strada a senso unico) che attiva significati secondi e in più direzioni, insomma di un’attenta regia da album immerso nel tempo storico e parlante con accenti plurimi e diversi. E forse era davvero arduo, va detto, riprodurre l’assetto globale delle agende, il loro tratto manuale e artigianale, di raffinato collage. Alla fine, in ogni modo, si dà una coerenza di fondo tra questo livello testuale e l’attenzione al linguaggio, anzi ai linguaggi (ai modi di dire, alle forme proverbiali, ai dialetti), che è propria del Diario, e quella ai “tipi” dell’umanità che sola è cara a Bellocchio, degli umili e degli antieroi, gli “onesti” sottratti all’oblio nelle sue pagine (per lui, non a caso, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana furono libro capitale); così come la rilettura e la ricognizione a distanza si applica tanto ai film e ai libri amati di un tempo, a Pinocchio o a Proust, quanto ai testi dei classici, là dove affiora una radice profonda della scrittura, saggistica nel senso di una categoria che può comprendere Guicciardini o Machiavelli e Montaigne, ma anche Kraus o Horkheimer (Crepuscolo) e Adorno (Minima moralia). Tanto più è soggettivo, lo sguardo dell’autore, tanto più è oggettivante: sia le vicende familiari – a cui lo “stile tardo” dell’autore dedica non poco spazio: e sono pagine bellissime –, sia quelle della “storia patria” hanno nel libro un luogo primario, depurato di ogni retorica (o compianto) ed esposto, con un continuo e mobile andirivieni tra passato e presente, per rintracciare anzitutto l’impronta dell’ingiustizia sociale, le inadempienze e la corruzione non solo dei ceti dirigenti, ma anche dei loro avversari. Né è dato cogliere la minima ombra di cinismo in questo, mentre la “fedeltà al bene” che il Diario implica e rivendica, senza enfasi e per questo così efficacemente, rappresenta il fondamento dell’intero progetto e, più propriamente, dell’opera di Bellocchio, dove costanti sono i richiami a passaggi biblici ed evangelici: raro caso di laicismo integrale che non dimentica di agire “come se Dio ci fosse”.
Il moto dominante è quello della demistificazione, o più precisamente della demitizzazione, in chiave con l’eredità illuminista e un materialismo mai rinnegato, quali segnano una tradizione ogni volta sconfitta, nel nostro paese. Di qui la solitudine di chi si è convertito a un “gradualismo riformista” che “non confligge col marxismo, ma è a esso riconducibile”, nonché il risentimento polemico verso i due versanti dell’ideologia corrente, quello del progressismo all’italiana, complice del peggio, da una parte, dall’altra del “liberal-liberismo” imperante e mortifero dalla fine secolo a oggi. Ma anche la miseria culturale e l’oscuramento morale, se risvegliano l’indignazione (come il “teppismo” dei media), non meritano più di un frammento: piuttosto il lettore del Diario potrà trovare lungo il cammino le mine disseminate dall’autore per far saltare le inerzie del pensiero e le ideologie strumentali ai poteri di turno. Non è un freddo disincanto, anzi è una forma di speranza. Per questo ci mancherà la conversazione di Piergiorgio Bellocchio, il suo sguardo senza ombre, l’ironia e il fervore contagioso della sua intelligenza; ma potremo tornare alla sua opera, ogni volta, “come per accendere per un giorno il caminetto in una casa vuota, rimasta al gelo per molti, troppi inverni”.
luca.lenzini@unisi.it
L. Lenzini è coordinatore del Centro di ricerca Franco Fortini