L’io di molti
di Alberto Locatelli
Pier Franco Brandimarte
Il dio dei crocicchi
Diario galiziano
prefaz. di Filippo Tuena,
pp. 83, € 10,
Mattioli 1885, Fidenza PR 2021
A pensarci bene, il cuore pulsante di Il dio dei crocicchi, con cui Pier Franco Brandimarte ritorna in libreria a distanza di sei anni dal felice esordio L’Amalassunta (Giunti, 2015, vincitore della XXVII edizione del Premio Calvino) sta già tutto concentrato nell’esatto quanto ossimorico sottotitolo: Diario galiziano. Se infatti è un diario tout court, ciò in cui fin da subito ci s’imbatte (l’estate del 2017, da un giugno “confuso” in cui i giorni si susseguono senza alcuna soluzione di continuità – non sono indicati nel testo – fino al 5 agosto, passando per un luglio dove si ripresenta invece l’ordinaria scansione temporale, forse a restituire anche graficamente un processo sotterraneo di gemmazione in seno all’io narrante, l’equilibrio che pian piano si riassetta, indice che qualcosa nel frattempo è davvero accaduto, che ha trovato senza troppo clamore il proprio posto nel mondo), soffermandosi piuttosto sulla materia narrata – il lucido quanto intimo e a tratti struggente spaesamento artistico ma ancor prima esistenziale (“mi fa male l’aria, vorrei dire, mi fa male il tempo”) di un giovane scrittore alle prese con la stesura di un romanzo durante una residenza artistica in Galizia (qui l’elemento esotico è anzitutto da intendersi drammaturgicamente quale corsia privilegiata per l’agognata alterità creativa) – si percepisce presto come quest’ultima, aleatoria, sfuggente, cozzi con l’inesorabile rigidità imposta dalla forma diaristica. La vertiginosa (e riuscitissima) ambizione che soggiace al testo di Brandimarte mira a rendere partecipe il lettore della pars destruens del lavoro artistico: quel fecondo processo di sparizione autoriale (“Nomino ciò che vedo affinché mi cancelli e m’invada”) che è premessa necessaria al fine non solo di “togliersi di mezzo così che gli ostacoli all’espressione possano essere rimossi. Farsi conduttore come un tubo”, ma anche di poter spingere liberamente lo sguardo verso territori dapprima impensabili, sconosciuti, proprio là dove alberga il senso, o forse – molto meglio – il mistero. Una sorta di propedeutica all’assenza (“Mi interessano le pietre, e la paura, questo male del tempo, questa febbre che è come una costante mancanza, mancanza di qualcosa che non so precisare”), dunque, “Per divenire niente, in attesa”. Un prontuario sul graduale azzeramento dell’identità e la sua conseguente nonché faticosa reinvenzione (“La nuova identità, un asterisco”), finora troppo viziata sia dalle sovrastrutture sociali (“Da dov’è arrivato questo desiderio bruciante di consumare il tempo?”), sia dall’asfissiante e gratuito giudizio famigliare (la “voce del padre” di ascendenza kafkiana), inframmezzato da improvvise folgorazioni circa la natura del romanzo che il giovane scrittore ha poi intenzione di andare a redigere e insieme intriso, pagina dopo pagina, di quel folle afflato, di quell’insonne tensione sottocutanea che formicola nell’animo di chi è in procinto d’intraprendere “un viaggio senza meta” (“Un’Odissea se però Itaca fosse dimenticata o distrutta come Troia, oppure un’Eneide se Roma fosse del tutto invisibile”).
Ed ecco, quindi, il crocicchio: correlativo oggettivo dello smarrimento da un lato, ma dall’altro anche delle diverse e chissà se fortunose possibilità (tante quante le diramazioni che da esso si snodano di volta in volta) a disposizione del narratore (“L’asterisco sono croci su croci”). Simbolo di un’ambiguità viscerale, bastone e pure carota, presieduto e sorvegliato fin dall’antichità da un altrettanto enigmatico Ermes (a questo proposito Brandimarte dà sfoggio di un accurato lavoro di documentazione e analisi delle fonti storiche – molto gustosa, per l’eterogeneità, la bibliografia nell’appendice): “la misteriosa divinità messaggera che faceva da cerniera tra i vivi e i morti, che da una parte conduceva i sogni e le anime, che dall’altra patrocinava gli inganni e i commerci”, qui deputata a nume tutelare, a viatico di mitologica memoria per l’intero decorso dell’implacabile sfarinamento del singolo (“per un attimo sono scomparso”).
Lo Psicopompo, però, non è l’unico mentore ad accompagnare e scandire le varie stazioni di questa personalissima fantasmagoria: la narrazione frammentaria, virando (sempre con molta grazia) a un’impronta più saggistica, convoglia puntualmente al suo interno gli echi delle voci di scrittori, filosofi, storici, poeti e pensatori del passato, ora ricorrendo a citazioni, ora a poesie e persino a canzoni, quasi a voler confortare (almeno da un punto di vista teorico) lo spiantato protagonista della bontà del suo arduo e solitario proposito. Del resto, da chi farsi aiutare, se non da fantasmi, mentre a poco a poco si scompare? Ne risulta così un testo (e guai a lasciarsi ingannare dalla brevità!) denso per contenuti, ma capace al contempo di non appesantirsi mai, squisitamente sostenuto da un solido e consapevole impianto narrativo. Anzi: servendosi di una lingua pastosa, di quell’armamentario stilistico esatto e finanche musicale che già una volta sorprese piacevolmente la giuria del Premio Calvino, Brandimarte mescola con genuina leggerezza e raffinata misura non solo registri diversi, ma anche immagini apparentemente lontane tra loro (dai labirinti fino a fugaci notti d’amore quasi dimenticate in casolari diroccati, “Mandare a mente, mandare a cuore (…). Perché noi non torneremo più, saremo solo immagine e ricordo, o nemmeno”, passando per un mostruoso san Cristoforo, i petroglifos incisi sulla pietra, i turbolenti anni dell’università a Bologna, le sculture bizzarre e i surreali dialoghi con uccellini nel folto del bosco), finendo per imbastire una geografia misticheggiante della quotidianità. In conclusione, curiosa è la vicenda editoriale dell’opera che, a causa della recente pandemia, sarebbe scomparsa (stavolta nel nulla, però) proprio come il suo protagonista, non fosse stato per la nobile ostinazione degli emiliani di Mattioli 1885 a salvaguardarla da un immeritato oblio perché, come sottolinea in tono intimo e scanzonato lo scrittore Filippo Tuena nell’Introduzione, “Si scrive sempre di queste cose, che ci siano accadute o che si sia desiderato viverle. L’importante è scriverle bene e Brandimarte sa farlo”.