intervista di Massimo Castiglioni
Luca Archibugi
Per filo e per segno
Teatro 1978-2018
pp. 568, € 30
Aragno, Torino 2021
Luca Archibugi aveva solo ventun anni quando, nel 1978, ha scritto il suo primo testo teatrale, Se le parole avessero un sesso. Ora, le poche pagine di quel precoce battesimo aprono Per filo e per segno. Teatro 1978-2018, un ricchissimo libro che raccoglie quasi per intero la sua quarantennale attività di autore teatrale (unico testo assente è Il quarto dito di Clara, rappresentato al Maxxi di Roma nel settembre del 2020). Sono venti i testi raccolti, ognuno testimone di un passaggio nell’evoluzione del pensiero di questo autore (non solo di teatro, ma anche poeta e saggista). Venti testi in cui l’attenzione alla presenza umana, all’intricata rete di rapporti in cui gli individui sono bloccati, si esprime in un gioco di fughe e rincorse, di sparizioni e di richiami, di apparizioni e di assenze, all’interno di un dialogo serrato con la letteratura e il teatro, con quanto, cioè, di una certa tradizione rimanga e come essa continui ad agire anche nei contesti più diversi.
In Amor proprio, del 1985, Ernesto e Giulia si rincorrono e si evitano per tutto il tempo, non volendo, o forse sì. È l’assenza che muove le cose. Questo giocare a schivarsi davanti a un malcapitato cameriere, non senza effetti comici, nasconde una forte spinta di desiderio, reso ancor più forte proprio dall’assenza, dalla mancanza. Ernesto dice che “ciascuno ha la propria dannazione. A noi è toccata quella dell’amor proprio”. È una dannazione che gli impedisce di ricongiungersi con Giulia, di comprendersi, di appagare il desiderio, e in un certo senso di uscire dalla propria soggettività, dal ruolo di personaggi di Amor proprio.
E il discorso sul personaggio si farà ancora più insistente quando Archibugi si ritroverà ad affrontare direttamente il mito con Edipo di Spinaceto, Baccanti perdute 2.0 o Orfeo bandito all’asta (elaborati tra il 2005 e il 2012). Quando, poco più sopra, di parlava di dialogo con una tradizione, era proprio a queste opere che si stava facendo riferimento. Non si tratta della volontà di trasferire le vicende di note figure classiche in un contesto contemporaneo, quanto di mettere sotto una luce problematica il ruolo e la potenza che il mito continua ad esercitare. Il che, specie in Orfeo bandito all’asta, si lega a questioni più problematiche rivolte al ruolo stesso dell’autore, alla sua dimensione biografica. E molte altre sono le suggestioni offerte dalla lettura del libro. Per meglio metterle a fuoco abbiamo pensato che la cosa migliore fosse fare una bella chiacchierata con l’autore. Ringraziamo Luca Archibugi per la disponibilità.
Comincerei proprio dall’inizio. Tu, all’esordio come poeta, nel 1979, hai pubblicato, in un “Quaderno Collettivo Guanda”, una raccolta intitolata Capolavori della pigrizia. Ora, con questo volume che raccoglie quarant’anni di scritture teatrali, per un totale di venti opere (manca la tua ultima, Il quarto dito di Clara), tutto mi sembra di vedere tranne che un autore pigro.
La motivazione principale per cui ho deciso di pubblicare questo libro era proprio di mettere un bel peso considerevole, come un libro di quasi seicento pagine, fra me e chi mi prende in giro dicendo che – siccome ho scritto Capolavori della pigrizia – sono pigro. Così posso scagliare il pesante volume contro di loro (ride).
Come mai solo adesso l’idea di raccogliere tutti questi lavori?
Ho sempre pensato che fosse impossibile raccogliere tutti i miei testi, ma da parte di Nino Aragno ho trovato una straordinaria accoglienza e grande disponibilità. In passato non ho neanche fatto tentativi di pubblicazione. Il primo è stato con Aragno che mi ha detto subito di sì.
Forse è un caso, ma la prima opera della raccolta, Se le parole avessero un sesso, è del 1978, anno del sequestro Moro; l’ultima, del 2018, è Labirinto Moro. È curioso come Aldo Moro si posizioni agli estremi di questo libro.
Tanto per smentire quelli che dicono che gli autori capiscono di loro stessi, io non ho mai fatto questa associazione. Ti ringrazio di aver chiuso questo cerchio, perché è vero quello che dici. Non ci avevo mai pensato, ma è chiaro che nell’arco della mia vita, tutto ciò che ha preceduto il sequestro Moro, e ciò che ne è seguito, ha avuto un significato importante.
Restiamo alla fine allora, a Labirinto Moro. Di fatto è un racconto, anche se è stato messo in scena.
È il primo racconto che ho scritto per il teatro.
Ed è un racconto in cui prevalgono due assenze: da un lato la Patrizia ricordata dalla voce narrante, dall’altro Moro. Da un lato il privato di chi dice Io, dall’altro uno dei momenti più difficili della storia italiana degli ultimi cinquant’anni. In entrambi i casi c’è un senso di mancanza e di distanza. Cosa rappresenta per te?
Rappresenta il limite invalicabile tra la cronaca che si fa immediatamente storia e il sentimento che sempre accompagna questo rapporto con la storia, filtrato attraverso i media. Io credo che, alla fine, senza il ricorso al sentimento, la sola cronaca sia fuorviante. Porti tutto alla visione delle cose voluta dai media. Naturalmente il sistema di cronaca del 1978 è completamente diverso da quello odierno.
Al giorno d’oggi, in un certo senso, non si parla di altro che di sentimento, soprattutto nel fiume in piena della comunicazione dei social network. Ma tu cosa intendi per sentimento? Mi sembra che alludi a una cosa diversa dal sentimentalismo dominante.
Il sentimento è proprio l’opposto del sentimentalismo. Il secondo è una retorica deteriore che molti – tra cui purtroppo scrittori, drammaturghi e registi – usano per tentare di crearsi un lasciapassare verso il pubblico. Il sentimento è invece qualcosa di impronunciabile, che cozza contro ogni tipo di retorica razionale di esso. È qualcosa che è molto vicino, anche se detto così è un po’ generico, a quella idea del Gefühl proposta tra Settecento e Ottocento che ha impregnato di sé tanta produzione poetica e filosofica di quel periodo. Diciamo che cerco di adeguarmi a quell’idea di sentimento, che però è difficile da raccontare in una scrittura. È il motivo per cui, in qualche modo, sono votato al non farmi capire e passo per un autore difficile. Io credo di essere molto meno difficile di quanto si possa pensare. Il mio tentativo è di andare verso la semplicità senza scadere nell’ovvietà. Il sentimentalismo, per me, ha a che fare con l’ovvietà, ma la mia idea di sentimento è proprio l’opposto dell’ovvietà. Chiaramente l’agguato dell’ovvietà è sempre presente e non sta a certo a me dire se riesco nel mio intento. Tra sentimento e sentimentalismo c’è lo stesso rapporto esistente tra romanticismo e Romanticismo. L’idea corrente di romanticismo è assolutamente deteriore e ci porta fuori pista rispetto alla parola nel senso storico-filosofico-letterario. Il Romanticismo storico, soprattutto in Germania, tra fine Settecento e primo Ottocento, è intriso di classicismo, di elementi che non hanno nulla a che vedere con l’idea corrente, e ovvia, di romanticismo.
Classicismo in che senso?
Nel senso che in quel periodo ci sono istanze classiche e neoclassiche che vanno a sconfinare in quella che è la Romantik. Quello di Romantik è un concetto molto ampio. Bisognerebbe fare molti esempi concreti su singoli autori, ma basti pensare a ciò che significa in Hölderlin, in Kleist, in Novalis o perfino in Goethe (autore che poco sopporto, devo confessare). Io amo tutti i pazzi che circondano Goethe, tranne lui, che hanno avuto una sorte abbastanza grama. L’unico che si è dato una regola, rispetto a questi matti, è stato Kant, un uomo del Settecento che aveva imposto un grande ordine nella propria vita. In realtà quest’uomo ordinatissimo, con la Critica del giudizio, ha sfondato completamente, secondo me, il rapporto con una razionalità irrelata che era quella su cui la filosofia classica aveva poggiato. Kant col trascendentalismo crea una situazione tale per cui non si può parlare di una visione classica, razionale e illuministica del rapporto con l’opera d’arte. Kant riformula il rapporto con l’opera d’arte in un senso più problematico. Quando dice che il giudizio estetico si fonda su un libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto, attraverso un sentimento di piacere e dispiacere, ti mette di fronte a un universale che non è più di tipo oggettivo, come quello della Critica della ragion pura per intenderci. Nella Critica del Giudizio (siamo sempre in una mia interpretazione) opera una riformulazione che va in qualche modo contro se stesso, malgrado lui tenesse alla coerenza del suo sistema. Lì individua per la prima volta una universalità soggettiva che poi avrebbe aperto la porta a Fichte e da lì si potrebbe andare avanti. La Critica del giudizio segna una riflessione ineliminabile, anche al netto di tutti i fraintendimenti dei contemporanei. Lo stesso ossimoro di universalità soggettiva comporta tutta una serie di conseguenze. Il sistema di Kant genialmente implode in se stesso. È, lo ripeto, una mia personale interpretazione che viene da tanti anni di studio. Mi sono laureato in estetica con Emilio Garroni, che per primo mi mise sulle tracce di questo grandissimo testo. Va specificato che questa mia interpretazione non è tuttavia coerente con quello che Garroni mi ha insegnato. Quello che sto dicendo lo considero come una sorta di interpretazione dell’interpretazione.
Domanda banale: qual è il rapporto tra Romanticismo, Kant (la tua formazione insomma) e la tua opera?
Questo sì che è un discorso complicato. Bisogna innanzitutto dire che tutto ciò non può prescindere dalla musica. L’ho studiata molto, ho studiato pianoforte e composizione, e non posso separarla da questo contesto. E sarebbe anche difficile raccontare come la musica agisca sulla mia formazione, dovrei sistemare troppi concetti. Posso comunque dire, guardando dentro me stesso, che le cose non hanno marciato separatamente. Ma non so in che termini esatti quello che era il cuore della riflessione, l’intreccio tra scrittura e filosofia, abbia avuto un effettivo affacciarsi nella musica. Nel periodo di cui parliamo c’è il passaggio fondamentale tra l’invenzione della forma sonata e il ritorno a Bach di molti autori, come l’ultimo Beethoven. È chiaro che Beethoven è figlio della forma sonata e di Haydn, ma poi ritrova gli elementi contrappuntistici della fuga e torna indietro verso Bach. Per andare avanti deve tornare indietro. E non parliamo di Schubert, di Schumann o di Brahms, che è stato considerato per anni come il tardoromantico che torna alle forme classiche. Questo ci riporta al discorso iniziale dell’incrocio tra classicismo e Romantik. È un intreccio imprescindibile, perché dovremmo intenderci su cosa è classico. Il clavicembalo ben temperato o L’arte della fuga di Bach sono classici? La Grande fuga op. 133 in si bemolle maggiore di Beethoven è classico? Se lo è, lo è in maniera diversa da Bach. Io penso che in quel frangente storico avvenga un rinnovamento delle arti assolutamente fondamentale che ci portiamo dietro per tutto il Novecento e ci permette di guardare con meno senso di panico al Terzo Millennio.
Tu sei un uomo del Novecento, di formazione.
Certo, il Novecento me lo sento addosso, però è anche vero che ho cercato di guardare indietro per andare avanti. Questo non per scimmiottare cose inimitabili, ma semplicemente perché vedevo che nel Novecento certi problemi che la Romantik aveva spazzato via si ripresentavano come problemi seri e reali; mentre, secondo me, guardando indietro si vedevano delle soluzioni per dipanare questa matassa inestricabile nel sistema delle arti e proseguire. Quello che è cambiato nel cosiddetto Moderno era già prefigurato, e le risposte che erano state date erano forse più avanzate rispetto alle risposte che, nella cronologia, si sono presentate in seguito. Storia e cronologia, nel sistema delle arti, tra Ottocento e Novecento, divorziano.
Guardare indietro andando avanti, come l’Angelus Novus di Paul Klee. E ovviamente il pensiero va anche a Walter Benjamin.
Questa cosa dell’Angelus Novus è quanto mai opportuna. Benjamin è pieno Novecento e fa una riflessione che ci riporta indietro. Però questo tornare indietro è proprio anche di Heidegger a proposito della sua dimensione del ritorno. Questa dimensione è il nóstos di un pensiero che si smarrisce e ritorna. Non si può parlare in generale del Novecento, perché nel Novecento c’è tutto, è olistico. Mangia e risputa continuamente la sua materia come il Leviatano. Troviamo la spinta e la controspinta. Se Benjamin dice che l’Angelus Novus è la nostra dimensione, una dimensione del ritorno quindi, ecco che siamo in una controspinta. La spinta decisiva del Novecento, invece, è quella dell’Esposizione di Parigi e delle avanguardie. Però questa spinta è stata emendata infinite volte. Puoi considerare Rilke o Kafka scrittori d’avanguardia? L’idea fondamentale del Moderno è quella di non continuare a fare quanto fatto prima per trovare delle nuove forme: ogni volta l’arte deve superare ciò che è avvenuto prima. Ma questa è proprio un’idea romantica. È un’idea tipica della Romantik. Il Moderno è la Romantik, quindi l’avanguardia è la Romantik. Il problema è comprendere cosa hanno fatto i singoli artisti sotto questa spinta fondamentale. Joyce è emblematico. Comincia scrivendo dei racconti “normali”, Dubliners, ma poi va avanti in questa revisione totale delle forme e arriva all’Ulisse. Infine fa un ulteriore passo e arriva a Finnegan’s Wake, che è praticamente intraducibile, anche se molti ci hanno provato con convinzione, raggiungendo notevoli risultati. Cosa significa tutto questo? Che forse non dobbiamo più scrivere romanzi perché non si può andare oltre Finnegan’s Wake? E invece ci si arriva benissimo a nuovi romanzi. Vogliamo contare le grandi opere letterarie scritte dopo Finnegan’s Wake? Sono moltissime. Questa idea della Romantik che l’avanguardia ha fatto propria era ciò che in matematica è l’asintoto.
In pratica non si può pretendere di arrivare alle fine della forma, come forse ha tentato di fare Joyce.
Penso anche io che non possa esserci la parola ultima sulla forma. Il rapporto con le arti è più a fisarmonica che verticale. Il rapporto moderno con l’arte è stato più verticale, in cui ogni esperienza doveva superare la precedente; io penso sia più adeguato pensare a un rapporto simile all’aprirsi e al chiudersi di una fisarmonica.
Dopo questa digressione che da Moro è arrivata a Joyce passando per tante altre esperienze, torniamo al tuo teatro. Prima hai parlato di classicismo, e da un certo punto in avanti tu hai attinto molto al mito e alle letterature classiche.
Diciamo che dal 2005 in poi ho scritto diversi testi ispirati a strutture delle tragedia attica e della mitologia antica. Mi sono soffermato sul dionisismo in particolare e su Edipo.
Ecco, proprio Edipo. Edipo sta a Spinaceto, nella periferia romana, come suggerisce il titolo di un tuo testo.
Non direi “sta a Spinaceto”, ma è “di Spinaceto”, ed è una differenza fondamentale, perché non volevo fare un’ambientazione contemporanea di Edipo, volevo semmai far capire come il mito agisca sempre.
In Edipo di Spinaceto, a p. 362 del libro, la tua Giocasta dice una cosa molto interessante: «Qui sotto ai casermoni, nel quartiere, ogni storia è quella di Giocasta e Edipo, di Antigone, Medea, Polinice e Creonte. È pieno di gente così, di gente pedestre analoga al mito. E di miti pedestri che vogliono assomigliare alla gente». In che maniera il mito continua ad agire e la gente continua ad ispirarsi al mito?
Per la potenza simbolica del mito. Una potenza che non viene mai smarrita e che portiamo sempre dietro. Anche lì siamo alla fisarmonica, in qualche modo. L’aria entra nello strumento e produce una struttura armonica. Il mito è l’aria, c’è sempre, può essere esplicitato, ma può agire implicitamente portando linfa, e questa linfa è imponderabile. Edipo e Giocasta non sono tanto dei personaggi che possiamo scegliere di volta in volta, ma sono la stessa possibilità del personaggio. Per cui, anche se noi parliamo, per dire, di Maigret, dentro di lui, cioè dentro un personaggio, noi troviamo la potenza mitica dell’idea di personaggio in generale che Edipo e Giocasta portano con loro. A me piacerebbe vedere per una volta un’opera teatrale, o un romanzo, o un racconto, che potessero fare a meno del personaggio, che potessero dimenticare il personaggio. Se tu ci pensi bene non c’è un sinonimo per la parola “personaggio”, pensa che concrezione di parola è se andiamo all’etimologia. Non possiamo sostituirla con un’altra parola. Questa concrezione presenta un soggetto che non è più tale, perché spostando l’idea di personaggio al di fuori del soggetto non ci rimane più nulla, rimane il vuoto. Per questo mi sento così partecipe delle sorti della poesia, perché fa a meno del personaggio. L’Io che dice “Io” non è un personaggio, non è il poeta. È qualcos’altro.
Non si crea così una specie di distanza tra il personaggio e la realtà?
Assolutamente sì. Io non so che soggetto avesse in mente Sofocle quando ha scritto Edipo re, non può essere lo stesso tipo di soggetto che abbiamo in mente noi. Ma è vero che quel personaggio, Edipo, evoca qualcosa che esce da sé stesso, e lo vediamo nella distanza del tempo, dopo 2500 anni dalla tragedia attica. Quel personaggio accampa un’esistenza a cui la parola “personaggio” va stretta. Questo si vede meglio riferendosi all’antico che non alla contemporaneità.
Nella tua opera mi sembra che si avverta molto questo senso di distanza. Ma forse, per ciò che intendo e voglio chiederti, è più corretto sostituire la parola “distanza” con la parola “assenza”. Avverto molto, perdonami il gioco di parole, la “presenza dell’assenza”.
Non è un gioco di parole. A me interessa più l’assenza che la presenza, perché dall’assenza può generarsi la vera presenza. Invece con l’ossessione tautologica della presenza ci troviamo imbrigliati in un’illusone in cui non riusciamo più a vedere le cose per quello che sono. L’assenza domina il nostro fare arte. Per questo mi interessano così tanto alcune esperienze artistiche. Nell’Assunzione della Vergine del Correggio, nella cupola sopra l’altare maggiore nel Duomo di Parma, c’è una sorta di dissoluzione del personaggio. Troviamo una dissoluzione del personaggio anche nel Cristo Velato di Sanmartino, nella Cappella Sansevero di Napoli: il velo posto sulla statua di marmo è una forma ingenua di cancellazione del personaggio. Un’esigenza che viene dal profondo ma che non riesce. La maestria dello scultore è stata proprio quella di aver trovato il modo di far vivere il personaggio dentro il velo, quindi sembra il contrario. Ma perché porre questo velo? Oppure nella Vestale Tuccia di Corradini, a Palazzo Barberini a Roma, perché l’artista sente questo bisogno? Mi sembra che qui siamo nel cuore del problema. Sembra che ci sia un personaggio che noi non vediamo, invece è il contrario, viene prima il velo, viene prima la cancellazione. Andando avanti nel tempo, se tutto il Novecento è un velo posto sulla figura, noi vediamo che la modernità ha fallito rispetto ai suoi principi fondamentali, ma questo fallimento reca con sé la dimensione della verità. L’arte non ha più a che fare con la bellezza ma ha a che fare con la verità. La grande trasformazione della Romantik, da Sette e Ottocento, è il progressivo passaggio dall’idea dell’arte intesa come bellezza all’arte intesa come verità. È questo il punto in cui Classicismo e Neoclassicismo si separano dal Romanticismo, perché è il Romanticismo che propone l’arte come verità.
Tornando al concetto di assenza, mi pare che questo si leghi a quello di desiderio. In testi come Amor proprio o nella Cena da Stella l’assenza è accompagnata da inseguimenti continui tra i personaggi, e quindi prevale una spinta di desiderio nell’inseguirsi. Tuttavia da una certo punto in avanti, diciamo dalla Notte della Vigilia, l’assenza sembra pervasa da un senso di malinconia e di sentimento del passato.
È vero, i miei testi sono quasi tutti cerimonie dell’assenza. Così è anche Labirinto Moro, che hai ricordato prima: Moro è assente. Su assenza e desiderio il problema è che l’assenza genera desiderio. Questo è il vero nucleo. Non si può certo dire che il mio sia un teatro erotico, ma in questa chiave lo diventa. L’assenza diventa eros. Per quanto riguarda la malinconia ti invito a pensarla non in maniera tradizionale ma in maniera energica. Pensa a Baudelaire, per esempio, a quella meravigliosa poesia che è Recueillement.
Leggiamola nella traduzione di Valerio Magrelli
Fa’ la brava, o mia Pena, e sta’ più tranquilla.
Tu invocavi la Sera; essa scende; eccola:
Un’atmosfera oscura avvolge la città,
Agli uni portando pace, agli altri affanno.
Mentre dei mortali la moltitudine vile,
Sotto la sferza del Piacere, questo boia senza pietà,
Va a cogliere rimorsi nella festa servile,
Mia Pena, dammi la mano; vieni qui,
Lontano da loro. Guarda affacciarsi i defunti Anni,
Dai balconi del cielo, in vesti antiquate;
Sorgere dal fondo delle acque il Rimpianto sorridente;
Il Sole moribondo addormentarsi sotto un’arcata,
E, come un lungo sudario trascinato verso Oriente,
Ascolta, mia cara, ascolta la dolce Notte che cammina.
Magrelli dice che questa traduzione è soltanto di servizio. Secondo me è molto di più. È una malinconia eroica che ti porta fuori dalla disperazione, altro che crogiolarsi nella disperazione. È quella che io cerco, ma non so se l’ho mai trovata.
Ma la malinconia si lega a un altro tuo tratto distintivo che è l’ironia. Nei tuoi testi è facile divertirsi.
Mi diverto molto a lavorare sui tempi comici a teatro. Scattano paradossi. Non ho mai scritto una sola battuta pensando di far ridere, ma si creano dei paradossi tali che alla fine si ride. Ci sono stati dei momenti in cui gli attori si sono fermati per aspettare che il pubblico smettesse di ridere, cosa inimmaginabile se tu leggi i testi scritti. Quando la nebbia si dipana la gente ride, ed è incredibile. È un meccanismo che conosco bene e ci gioco sopra. Fanno eccezione alcuni testi tipo Labirinto Moro dove la materia drammatica non può prestarsi a forme di ironia.
Prima parlavamo di mito. Moro è un mito?
È anche un mito. Intorno a lui c’è una vicenda reale, ma nel momento in cui la sua diventa una vicenda tragica allora diventa anche mitica. Moro non va mai disgiunto dal periodo storico in cui le Brigate Rosse sparavano per fare la rivoluzione proletaria. Durante il sequestro hanno ucciso cinque proletari, i membri della scorta, pensando di fare la rivoluzione comunista. È anche un mito ma soprattutto è una vicenda penosa e drammatica.
Tornando ai miti classici, tu oltre a Edipo hai utilizzato anche Orfeo, in Orfeo bandito all’asta, un testo con evidenti richiami autobiografici, incredibilmente strutturato, pur nella sua brevità. Lì mi verrebbe da dire, passami la battuta, che il mito è uno e trino: autobiografia, mercificazione del mito ma anche morte del mito, con quel personaggio che annaspa in acqua. Autobiografia, morte e mercato insomma.
Sì, che poi tutte e tre sono la stessa cosa, da un certo punto di vista. Giusta la divisione, aiuta a capire come la morte del mito sia la sua mercificazione. Nel capitalismo assoluto, a Orfeo non rimane che morire per l’ennesima volta. Come muore peraltro nel mito stesso, quindi non è altro che un ripresentarsi dell’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche. È l’anello dell’eterno ritorno dell’uguale.
Il tuo Orfeo è sia morto che vivo. Distante sia dalla morte sia dalla vita.
Diciamo che il protagonista, chiamiamolo così visto che siamo sempre nel “personaggio”, Ugo Pesci, è una specie di simulacro di vita, però in quanto morto, e nell’eterno ritorno dell’uguale, rinasce continuamente. Torna nel passato per rinascere. Torniamo ancora all’Angelus Novus: c’è questo elemento in Benjamin, Klee e Nietzsche dell’eterno ritorno.
La mercificazione del mito fa pensare a Stefano D’Arrigo, anche se si tratta di un autore che forse non è il primo da accostare al tuo teatro.
Però è un autore a me molto vicino, ho scritto anche un saggio su di lui. Per quanto riguarda la tua domanda, dobbiamo pensare che il problema del mito mercificato è molto più sottile. Anche quando si manifestano le prime tracce del mito di Orfeo, diciamo dall’VIII al VII secolo a. C. circa, c’erano i mercanti, come in ogni epoca. Non dobbiamo essere ingenui pensando che nel mito c’è la purezza e ora invece c’è la mercanzia. La cacciata dei mercanti dal tempio narrata nel Vangelo è un gesto eterno: anche questo è un eterno ritorno dell’uguale. I mercanti vanno sempre cacciati dal tempio. Così come sempre il mercato ucciderà Orfeo. È il ciclo della vita. Questo è molto importante altrimenti alcuni trasportano nell’aura mitica un’idea di purezza che non esiste. L’acqua, per tornare a noi, è sempre torbida ed è da lì che dobbiamo partire. Anche per la malinconia. La malinconia deriva dal fatto che l’acqua è torbida e dal tentativo di purificare l’acqua, ma naturalmente non ci riesci mai. È come quando Arnold Schönberg dice che la pulizia è sporcizia diluita all’estremo.
Il tuo esempio anticipa una mia domanda. Nel tuo teatro si creano delle immagini molto forti e alcuni elementi assumono un valore decisivo. Restando sempre a Orfeo bandito all’asta, lì proprio l’acqua ha un ruolo importante, ma in generale credo che abbia un certo peso nel tuo immaginario.
Andrea Cortellessa, presentando il Dileguante, diceva che l’acqua è l’elemento fondamentale, pur trattandosi di un’acqua continuamente disturbata, torbida appunto. In quel libro, infatti, c’è una poesia che parla di una vasca torbida. Comunque si tratta di un elemento assolutamente primario per me. Se pensiamo anche alla vasca delle foche di Per filo e per segno o allo stesso Orfeo. In genere l’acqua è per me una figura della felicità, ma si tratta di una felicità offuscata, che non può essere limpida.
Come si inserisce il tuo teatro nel contesto del teatro italiano?
Non si inserisce. Ho avuto solo qualche tenue barlume di comprensione, ma sono stati dei fuochi fatui. Non mi sento capito ma non certo per presunzione: per me è un semplice fatto. Non sta ovviamente a me dire se comprendere quello che faccio possa avere un valore o meno. Io ci provo, non posso prevedere quello che succede dopo. Nel non essere compreso ci sono importanti eccezioni: quella di Stefano Gallerani, quella di un saggista come Attilio Scarpellini (che ha scritto la prefazione al mio libro) e quella di uno scrittore come Franco Cordelli che non mi ha permesso di dire di essere completamente solo. Non a caso le sue recensioni sono raccolte nel libro di cui stiamo parlando. Cordelli fa di mestiere il critico teatrale ma è soprattutto un narratore, uno scrittore. Anche lui, un po’ come me, ancora incompreso nella sua importanza decisiva.
In tantissimi anni di carriera quale credi sia la grande differenza tra quarant’anni fa, quando hai iniziato, e oggi?
Mi sembra che si stiano chiudendo degli spazi che erano aperti. Ma confido molto nel fatto che solo chi cade può risorgere, quindi sebbene il teatro italiano sia caduto in una specie di anfratto oscuro c’è forse la possibilità di una resurrezione.
Da cosa dovrebbe partire questa resurrezione?
Credo da una nuova configurazione della scrittura teatrale che possa proporsi come un nuovo orizzonte.
Scusa se insisto, ma in che senso una nuova configurazione?
Nella storia recente del teatro abbiamo visto un progressivo inaridirsi della fonte dei testi. Ovvero, si è erroneamente creduto che prove teatrali e improvvisazioni potessero generare dei testi. Io penso che lo scrivere sia, molto semplicemente, l’atto di un autore e che non si possa fare a meno dell’autore. Fare a meno dell’autore è una civetteria che ha portato a una situazione in cui i testi generati dal palcoscenico hanno il fiato corto. I testi vanno sì provati, esperiti, tagliati, adattati, ma devono essere testi, drammaturgia. E dal Secondo Dopoguerra a oggi la drammaturgia, in Italia, è caduta in un fosso, e non si è più rialzata.
Quindi si tratta di un problema più antico, la decadenza dell’autore e della drammaturgia dico.
L’autore è un po’ come la fenice: muore e rinasce insieme al teatro. Se togli l’autore viene meno la fenice, quindi sia la morte sia la rinascita e quindi anche il teatro. Se comprimi l’autore viene meno il processo dialettico che genera il teatro. Anche l’autore nel passato ha decretato la morte del teatro, ma attraverso il suo gesto di officiante funebre poi il teatro ha avuto la possibilità di rinascere. Penso ad autori dell’Ottocento e del Novecento. Penso a Büchner, a Strindberg, a Beckett, a Pinter o a Thomas Bernhard. Sono stati in qualche modo dei “beccamorti”, ma attraverso il loro gesto funereo il teatro è rinato.
Siamo sempre in una sorta di eterno ritorno dell’uguale.
Esatto, ma andrebbe approfondito nei testi di Nietzsche, se no così rischia di diventare una vuota formuletta.
Come nasce il tuo rapporto con la scrittura?
Sono molto attaccato alla scrittura teatrale. Quando avevo dodici anni ho letto una vecchia copia, di mio nonno, di Così è (se vi pare) di Pirandello. Fin dall’infanzia mi sono abituato a leggere testi teatrali finché non sono arrivato a scriverne. Il mio primo contatto da lettore non è stato con la narrativa ma con il teatro. Naturalmente non capii molto di quel testo di Pirandello, ero poco più di un bambino, però mi incuriosì fin dal titolo (che è bellissimo ma sconcertante), e lo lessi fino alla fine. Probabilmente fui attratto proprio da quell’effetto di stranezza.
Se dovessi indicare un’opera che più di altre ha esercitato un’influenza su di te quale sceglieresti?
Sicuramente quella di cui ti sto parlando, Così è (se vi pare). Nessun altro testo di Pirandello ha avuto un influsso così profondo su di me.
Il panorama letterario lo vedi decadente come quello teatrale?
Quello teatrale è inesistente, quello letterario è dominato dal midcult. O meglio, da una forma particolare di midcult: il fatto che opere di livello non eccelso vengano considerate di alto livello.
Mi sembra che il tuo lavoro, nella sua interezza, sia una specie di spallata al midcult.
Vorrei, poi magari lo caccio via dalla porta e rientra dalla finestra, non so, non posso essere io a capirlo. Certo, la sensazione è di essere attorniato da opere che non meriterebbero la mia attenzione, ma metto sempre in conto che potrebbe dipendere dalla mia sordità. Anche qui ci sono rare eccezioni: oltre al già ricordato Cordelli, Francesco Permunian, Edgardo Franzosini, Tommaso Pincio, Gabriele Pedullà e Vitaliano Trevisan, purtroppo recentemente scomparso.
Un’ultima domanda: sei un vero e sincero appassionato di cinema. Il cinema che influenza ha esercitato su di te? Nel teatro intendo.
Penso che senza cinema non avrei mai scritto neanche una riga di teatro. Nel metterlo in scena, però, il teatro mi affascina, il cinema meno. Ho girato dei cortometraggi e il cinema è fatto di pezzettini che vanno cuciti, e non riesci ad avere una visione dell’insieme. Nel teatro, quando stai ancora provando, tu hai una visione di insieme, e io sono attratto da questo, dal fatto di poter lavorare su un’imbastitura. Per me, una delle vere emozioni è assistere alla prima prova filata.
M. Castiglioni è saggista
massimo1812@gmail.com