Fra cultura pop e Shakespeare
di Matteo Fontanone
Paolo Zanotti
Trovate Ortensia!
pp. 486, € 22,
Ponte alle Grazie, Milano 2022
Se anche considerassimo la letteratura come una scienza vera e propria, su di lei la staticità delle formule e la perentorietà delle definizioni fisse non funzionerebbero per nulla. Se anche fosse scienza, insomma, la letteratura sarebbe comunque inesatta, troppo sensibile alle oscillazioni del gusto e dello Zeitgeist. Con tutte le cautele, però, qualche certezza possiamo ricavarla lo stesso: una di queste ci dice che il valore di un libro dipende soprattutto da quanto è in grado di resistere agli attriti del tempo, cioè dalla sua capacità di restare, dalla sua durevolezza, quindi dalla sua contemporaneità. Verrebbe da dire che i bei romanzi non invecchiano, né diventano inattuali: è il caso dell’esordio di Paolo Zanotti, scritto a metà degli anni novanta e rimasto nel cassetto finora, pubblicato per la prima volta da Ponte alle Grazie. Scomparso prematuramente nel 2012, nella scena culturale italiana Zanotti è ancora un segreto ben custodito. Nonostante i suoi libri siano letti e consigliati da una piccola ma agguerrita nicchia di fedelissimi, soprattutto tra le maglie del mondo dell’accademia e dell’editoria, il suo nome è ancora sconosciuto alla comunità dei lettori o a ciò che ne resta, fatta eccezione forse per Bambini bonsai (Ponte alle Grazie, 2018), un oggetto narrativo così visionario e perturbante da non riuscire a passare completamente sottotraccia. Scrittore di idee e talento, intellettuale raffinato, autore di un saggio importante come Dopo il primato (Laterza, 2011), un’esplorazione della letteratura francese dal Sessantotto in avanti, Paolo Zanotti con Trovate Ortensia! ci lascia in eredità una piccola opera-mondo, una testimonianza riemersa dai ghiacci del secolo scorso ma così ben conservata che sembra scritta l’altro ieri. Come spesso accade con libri di questo genere, parlare di trama è riduttivo, ma dopo tanti preamboli qualche notazione bisognerà pur darla: a Pisa, sprofondati negli anni novanta, assistiamo all’educazione sentimentale di un gruppo di ragazzi alla ricerca di un’identità propria, e tangenzialmente sbirciamo anche nelle vite dei più grandi, i loro genitori. La città in cui si muovono è febbrile, eccitata, universitaria e insieme provinciale: nelle pagine di Zanotti, Pisa scintilla di un’energia vitalissima, e tra le sue vie formicolano Emilia, Florian, Simone, Viola, Francesco Paolo, Ludovico, Oreste… Una girandola senza protagonista, da cui sfugge – ma allo stesso tempo è irresistibilmente attratta – la misteriosa Ortensia che dà il titolo al romanzo.
Dal momento che questo è un libro di lingua, però, sopra ogni cosa si impone lo stile. Non uno stile fastoso o appariscente, mai schizzinoso o cattedratico; la pagina di Zanotti è una continua contaminazione di generi, grammatiche diversissime, intuizioni. Un botta e risposta senza fine tra alto e basso, passaggi di grande sensibilità letteraria e vernacolo, cultura pop e Shakespeare, perfetta aderenza ai capisaldi del realismo contemporaneo ed episodi di totale spaesamento. È un libro drammatico, perché sfiorandole e osservandole di lato indaga la malattia mentale, la vecchiaia, la solitudine; è però anche umoristico, scanzonato, spesso fumettistico, o almeno ammiccante a tutta la leggendaria stagione di Paz e del Dams di Bologna. Zanotti gioca, e si diverte, con i luoghi comuni dell’horror, li trasfigura nel suo pasticcio postmoderno e li miscela con dialoghi fulminanti da commedia o da studentacci perdigiorno fuorisede, e ancora con ampi stralci di diario, con il teatro e la performance d’attore, che nella trama – malgrado sia una trama elusiva e scardinata, sempre vinta dalla divagazione – ricopre un ruolo centrale.
La scrittura è come un’impronta digitale, o un codice genetico. Poi, certo, varia nel tempo a seconda di come l’alimentiamo, ma un timbro originale resta: la scrittura riflette il modo di pensare, di stare al mondo, di dire le cose. C’è chi premette e gira infinite volte intorno a ciò che davvero gli interessa raccontare, chi è diretto e progettuale e architetta narrazioni compiute, chi è frammentato, chi nelle storie cerca l’assertività e chi subordina per non lasciarsi indietro nulla, come per dipanare la matassa ingarbugliata del reale. Poi ci sono quelli come Paolo Zanotti, che il senso del suo scrivere l’ha cercato nel ragionamento incessante sulla forma, nell’aderenza prensile tra lo stile e l’ambiente, i personaggi, gli umori. Che ha messo in scena un universo strampalato e schizofrenico, naïf e perduto. Le bestemmie dei pisani, i gatti stregati, le Ortensie inafferrabili e un po’ vampire, in questo libro così esploso e totalizzante convivono con una silenziosa pulsione alla morte, con la cupezza di alcuni sguardi obliqui, con un’inquietudine mai manifesta, eppure sempre viva e agitata. Basta perdersi tra le spire di questo libro, insomma, per capire che Zanotti è stato un grande scrittore: forse non abbiamo nemmeno il diritto di immaginarlo, ma viene da pensare a quanto ancora avremmo potuto avere da lui, e a quanto poco gli è stato riconosciuto quando ancora c’era la possibilità di farlo.