L’arte di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri
Orhan Pamuk
Le notti della peste
ed. orig. 2021, trad. dal turco di Barbara La Rosa Salim,
pp. 713, € 25,
Einaudi, Torino 2022
Ambientato nell’isola immaginaria di Mingher, da qualche parte del Mediterraneo orientale fra Creta e Cipro, durante un’epidemia di peste nel 1901, il romanzo prende le mosse dal classico espediente, dai precedenti illustri, del manoscritto ritrovato: la lunga serie di lettere inviate dalla principessa Pakize alla sorella dal suo avventuroso soggiorno nell’isola, fresca di nozze con il principe consorte Nuri Bey, medico affermato. Ai novelli sposi è stata affidata dal sultano la missione di indagare sulla misteriosa uccisione di Bonkowsky, chimico di fama internazionale, appena arrivato in veste di commissario sanitario. Fin da subito l’invenzione rende omaggio al vero, evocando figure realmente esistite, dallo stesso Bonkowsky, grande scienziato dell’epoca, al sultano Abdul Hamid e a suo fratello Murad, di cui ha usurpato il trono imprigionandolo con tutta la famiglia in un palazzo in cui è dunque sempre vissuta la nostra immaginaria principessa, sua figlia, fino al matrimonio. Voce narrante del romanzo è la bisnipote Mina, addottorata in storia a Cambridge, che lo presenta come Introduzione della curatrice alla pubblicazione delle lettere di cui è venuta in possesso, parlando in prima persona all’inizio e in conclusione del libro, non senza intrusioni qua e là a commento del lungo racconto che ricostruisce la vicenda da un punto di vista esterno, incardinandola nel contesto più ampio della storia dell’epoca.
L’indagine sul caso Bonkowsky corre lungo due binari: il dottor Nuri si muove alla maniera di Sherlock Holmes, che sa beneamata dal sultano (Abdul Hamid era un grande lettore di Conan Doyle, cui conferì persino un’onorificenza in occasione di un suo viaggio a Istanbul), e va in cerca di indizi per individuare il colpevole, al contrario del governatore Sami che, diffidente rispetto ai metodi moderni occidentali e sulla stessa natura del morbo, pensa si debba prima individuare il colpevole per poi trovare le prove, anche con pestaggi e torture. Quali piste inseguire per scoprire i moventi del rifiuto, fino all’ostilità aggressiva, dell’emergenza epidemica? Sami sospetta occulte cospirazioni straniere, mentre Nuri gira per le strade, entra nelle case e negli ospedali, allevia le sofferenze dei malati, osserva e ascolta voci e reazioni dei vari ambienti. E i suoi resoconti di ogni sera nei dialoghi appassionati con Pakize, relegata anche qui in un palazzo ma sempre attenta a osservare dalla finestra ciò che succede intorno a lei, ci offrono una cronaca ragionata sul corso degli eventi. Non ci addentreremo nel ripercorrere i tanti fili della trama che si dipanano dalle indagini facendo emergere i sommovimenti innescati nell’isola dal dilagare della peste. Tensioni e conflitti che sconvolgono la vita sociale nello scontro tra credenze religiose e convinzioni scientifiche, autorità locali e imperiali, confraternite musulmane e congregazione greco-ortodossa, circa le misure da adottare di fronte al moltiplicarsi dei contagi e dei morti. Il susseguirsi degli eventi è narrato con un incalzante montaggio cinematografico, quasi da avvincente serie tv, nell’alternarsi dei capitoli che catturano il lettore riprendendo gli stessi episodi da diversi punti di vista, intercalando momenti drammatici e suggestioni fiabesche, approfondendo il profilo dei personaggi nella loro dimensione pubblica e privata, con le loro ambizioni e storie d’amore. E sullo sfondo della paura della morte tra gli abitanti di Mingher possiamo intravedere la paura del declino mortale dell’impero ottomano, il “grande malato d’Europa”, stretto fra i giochi delle grandi potenze, con le loro navi intorno all’isola, e la disgregazione interna per le crepe che si aprono fra le diverse comunità etnico-linguistiche.
Mentre fuori aumentano le violenze di bande guerrigliere, gli arresti, le quarantene imposte, i tentativi di fuga dall’isola, nel chiuso delle stanze del governo locale assistiamo agli incontri inconcludenti che riuniscono amministratori, burocrati, militari, consoli stranieri, medici e ospedalieri in cerca di soluzioni politiche e diplomatiche al disordine imperante. L’insicurezza sanitaria genera paura e invoca un potere cui affidarsi, come sembra segnalare un fugace accenno al Leviatano che un giornalista greco legge di nascosto dal governatore (e curiosamente, aggiungiamo, a ben guardare il frontespizio della prima edizione del libro, nell’iconografia simbolica dei fondamenti del potere che il gigante hobbesiano esibisce sul petto, vediamo comparire anche la figura dell’ispettore medico con la classica maschera a becco). A segnare il corso degli eventi saranno due passaggi cruciali, decisi da attori individuali: il cosiddetto “colpo del telegrafo”, con cui nell’ufficio postale un maggiore dell’esercito taglia i collegamenti con l’esterno dell’isola, e il successivo colpo di stato del governatore che ne proclama l’indipendenza, fra le convulse traversie di un vuoto di potere che sarà chiamata a coprire Pakize, nominata regina poco più che simbolica dal volto presentabile al mondo ma poco dopo allontanata anche lei.
Il destino del nuovo stato indipendente si compie infine nel segno del nazionalismo sull’onda dell’invenzione della nazione mingheriana, che ha bisogno di costruire i suoi miti, i suoi eroi e mausolei, nell’isola di Mingher come in tante parti del mondo, a consacrazione di un potere che si annuncia intollerante verso ogni appartenenza plurale proiettando le sue ombre autoritarie nel futuro. “L’arte del romanzo”, osserva Pamuk, “si basa sulla capacità di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre”.
S. M.