Vite un sacco sprecate
di Alberto Locatelli
Nicola Nucci
TROVAMI UN MODO SEMPLICE PER USCIRNE
pp. 176, € 14,
Dalia, Terni 2019
Finalmente, Trovami un modo semplice per uscirne, opera finalista alla XXXI edizione del Premio Calvino, trova la propria collocazione sugli scaffali delle librerie grazie al coraggio dei ternani della Dalia Edizioni. Che l’esordiente Nicola Nucci, classe 1987, si sia ispirato al dramma dell’assurdo per eccellenza, il beckettiano Aspettando Godot, è presto detto. Sfogliando le centosettantasei pagine, l’occhio viene subito colpito (oltre che dalla qualità dell’oggetto-libro) dalla sua veste tipografica: una serrata scansione dialogica, cifra di ascendenza teatrale costitutiva del testo.
Un lungo botta e risposta, dunque, dall’inizio alla fine, ripartito in quattro atti (Una stella cometa; Un grande varietà; Il Messia; Canta pure tu), ben ritmato e musicale, dall’andamento ipnotico e fluviale (davvero gustosi quei frangenti, disseminati qua e là nel testo, in cui le parole sembrano scelte per la loro capacità di accordarsi a una partitura sottotraccia, fatta di bizzarre armonie e ritornelli in salsa jazz), senza tuttavia mai rinunciare all’incisività e all’ironia. Col suo abile gioco Nucci trascina il lettore nella vicenda esistenziale dei suoi personalissimi Vladimiro ed Estragone: due amici, due ventenni che ingannano il tempo e la noia asfissiante di vite ai margini, “spaparanzati” e orizzontali con le schiene sempre incollate al divano, separati dal mondo esterno nel loro scantinato (“Il nostro fortino”), consumando musica, alcool e droghe leggere (“bomba-coi-fiocchi”).
A differenza dei loro illustri predecessori, però, Nick – il più convinto tra i due – e l’amico – cui spetta il ruolo di coscienza critica (e che, tra l’altro, non viene mai chiamato per nome, ma viene semplicemente denotato dal suo lavoro di operaio in un’azienda conserviera, ridotto così a mera appendice alienata del sistema produttivo) – appaiono fin dalle premesse dotati di una consapevolezza diversa, di una maggiore lucidità circa la loro condizione: il significativo equivoco nell’incipit, in cui una semplice “macchia d’umido” sul soffitto viene scambiata per una stella cometa, prima, e per un’astronave poi, sembra infatti denunciare come ormai impensabile una qualsiasi speranza di aiuto dal di fuori. No, non c’è più nessun messianico Godot all’orizzonte. “Allora, che si fa?”.
In un’atmosfera di disillusione lisergica che sarà la cifra dell’intera pièce, la conversazione tra i due giovani si mette in moto a partire da ciò che è loro più famigliare: i gusti musicali. E a partire da questi, stimolato in particolare dal disappunto per lo striminzito successo ottenuto dai Kings of Convenience – band norvegese di finissima qualità rimasta però di nicchia –, il dialogo si farà via via momento di rivendicazione e di riscossa esistenziale (“Mai capitato di sentirti un sacco sprecato?”), portando i due amici a pensare ai dettagli di una loro personalissima Rivoluzione, che desiderano diversa da tutte quelle finora realizzate (una “Rivoluzione moderna”; “Lascialo stare quel Robespierre”).
Ed è a questo punto che s’impenna la coraggiosa e originale inventiva di Nucci: se all’inizio, infatti, la Rivoluzione viene ingenuamente intesa come una generica festa, con “Un sacco di femmine al seguito”, unico aspetto su cui i due amici filano d’amore e d’accordo!, ecco che poi la fantasticheria, invece di prendere quota, s’impantana, assumendo sempre più i tratti di quelle stesse logiche che regolano l’odierna cultura mediatica, con i suoi massificati valori consumistici, contro la quale i due amici parrebbero voler lottare. È un circolo vizioso, insomma. È un loop allucinato, ombelicale e megalomane, ciò di cui si è spettatori, che trova il suo apice (divertentissimo) quando i due giovani, dovendo scegliere il volto della Rivoluzione, “Tipo un Messia che… tipo un tizio che ci elevi da ‘sta merda’”, si rifanno a personaggi largamente affermati nel sistema mediatico imperante (da Jean-Luc, il brizzolato chef televisivo de La rivoluzione in cucina, a Harry Styles, ex-cantante della band inglese One Direction, che “spacca anche da solo”).
La spasmodica urgenza di una definizione esclusiva ed esatta, la ricerca di una parola piena e rotonda, non ambigua, soddisfacente, innerva l’opera in sottofondo, fino a palesarsi sul finale (dove sarà l’adeguatezza del termine stesso di Rivoluzione a essere passata al setaccio – “S’era detto col punto esclamativo, no”), e il lettore viene accompagnato verso un esito di malinconia tropicale – violenta ma passeggera – eppure carico di quell’eroismo senza clamore che favorisce la digestione quotidiana e concilia il sonno, con l’abbandono di ogni triste proposito di spararsi un colpo in testa e farla una buona volta finita.