Il dettaglio divino e la mossa del cavallo
di Giuliana Ferreccio
dal numero di gennaio 2019
Vladimir Nabokov
LEZIONI DI LETTERATURA
ed. orig. 1980, trad. dall’inglese di Franca Pece
pp. 526, € 26
Adelphi, Milano 2018
Nel leggendario corso di letteratura, Nabokov annuncia agli studenti: “Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono risciacquatura di piatti”. Lontano dalle mode e politicamente scorretto come è sempre stato, lo scrittore che più ha influenzato la letteratura contemporanea ci offre, in queste lezioni in forma orale, una guida senza tempo all’arte del romanzo, basata sugli appunti che prendeva nel prepararle, nei quali è contenuta in nuce la sua ars poetica. Ora possiamo di nuovo gustarle nella nuova accurata traduzione italiana, basata su quella classica introdotta da John Updike del 1980. Da allora molti inediti sono stati pubblicati, le società di studi nabokoviani si sono moltiplicate, e una nuova introduzione che tenesse conto di queste novità non sarebbe stata sgradita. Leggendo queste lezioni, abbiamo il privilegio di entrare in quelle classi assieme ai fortunati studenti della Cornell nei rispettabili e dignitosi anni cinquanta. Dalle testimonianze di alcuni abbiamo l’immagine di un insegnante appassionato, magnetico, ma soprattuto ironico: “È vietato parlare, fumare, lavorare a maglia, leggere il giornale, dormire, e, fatemi il piacere, prendete appunti!”. Nabokov si divertiva, più degli studenti, svolgendo l’ennesimo lavoro intrapreso per sopravvivere, così come si era divertito nei mestieri disparati che l’avevano sfamato nella povertà dell’esilio, nonostante la grande fama che aveva già acquisito negli ambienti dell’emigrazione russa. A Berlino si mantenne dando lezioni su un bizzarro insieme di discipline: inglese, francese, pugilato, tennis e prosodia, ma soprattutto tenendo conferenze che gli fecero guadagnare di più della vendita delle sue opere in russo.
Costretto due volte all’esilio, prima dalla Russia a causa del bolscevismo, poi dall’Europa a causa di Hitler, con l’arrivo in America nel 1940, fu a Wellesley che per la prima volta nel 1941 tenne una serie di conferenze, ma solo con l’insegnamento a Cornell dal 1948 al 1958 iniziano gli anni americani veramente produttivi per Nabokov. L’ambiente universitario di Cornell ritorna magistralmente ritratto in Pnin e soprattutto in Fuoco pallido, dove la minuziosa ricostruzione degli spazi, delle dimore, dei giardini intorno al campus, ci fa immaginare la backyard della casa di Ithaca dove la moglie Véra gli impedì di bruciare le pagine iniziali di Lolita, che Nabokov completò nel 1953. Le riletture alle quali dovette applicarsi per preparare i corsi degli anni cinquanta insieme alle riflessioni che accompagnavano l’insegnamento, avevano contribuito al suo reinventarsi come scrittore americano. Facendo tesoro dei suggerimenti di Edmud Wilson, si volge a Dickens e Jane Austen, che all’inizio non gli piaceva e, scoprendo il suo valore leggendo e rileggendo Mansfield Park, Nabokov trova inedite, modernissime anticipazioni del flusso di coscienza nella tecnica che definisce la “mossa del cavallo”. L’autrice così morigerata, grazie alla sua passione per gli scacchi, finisce per dargli spunti per i cugini incestuosi, protagonisti di Ada.
“Il mio corso è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie” recita l’epigrafe alle lezioni. Se le sue letture spaziano da Poe a Dickens a Joyce, da Flaubert a Proust, i suoi eroi infantili appartenevano invece al mondo dell’avventura e della detection: la Primula Rossa, Phileas Fogg, Sherlock Holmes, anticipando profeticamente le diverse identità che lui avrebbe dovuto inventarsi e la passione della ricerca del dettaglio, della traccia, della spia che porta a svelare l’enigma. Per inciso, l’“indagine poliziesca”, in italiano, pone i soliti problemi di traduzione: come sappiamo, il detective non è la polizia, specie per Nabokov e i suoi protagonisti, in costante fuga dalle polizie dei regimi totalitari.
Fu la sua grande passione di entomologo, instancabile investigatore di dettagli a consentirgli di acquisire quella conoscenza nitida del “magnifico, fiducioso, sognante, enorme paese” di adozione che fa splendere le pagine di Lolita. Nabokov ci insegna che nel leggere si deve cogliere e accarezzare il dettaglio, il “divino dettaglio”, che acquisisce vita propria e trasmigra da un romanzo all’altro come la lorgnette di Madame Bovary che passa nelle mani di Anna Karenina e poi della Signora con il cagnolino di Čechov, così come l’oggetto che intrama uno degli ultimi romanzi Transparent Things. “Dio è nel dettaglio” sosteneva Aby Warburg.
È la combinazione dei dettagli che fa scattare la scintilla sensoriale, il brivido rivelatore in grado di provocare il fremito lungo la spina dorsale che ci fa riconoscere un grande romanzo. Per questo Nabokov disegna alla lavagna gli schizzi dei giardini e la pianta del palazzo di Mansfield Park, la facciata della casa del dottor Jekyll, la mappa dei vagabondaggi di Bloom e Stephen Dedalus attraverso Dublino. Senza una percezione visiva del dettaglio e dell’itinerario dell’oggetto (la saponetta di Leopold Bloom nell’Ulisse), l’insieme del mondo inventato con cura e passione si riduce a un’immagine volgare, come quella della copertina in brossura, tratta dalla riduzione cinematografica di Il dottor Jekyll e Mr Hyde, “mostruosa, abominevole, atroce, criminale, abietta, disgustosa, corruttrice di minorenni”. Nemico delle generalizzazioni preconcette, che ci fanno vedere in Madame Bovary una denuncia della borghesia, o in Bleak House uno studio della Londra ottocentesca e non l’invenzione di una Londra fantastica, Nabokov sostiene che i grandi romanzi non sono che grandi favole, e che solo i minori non si prendono la briga di reinventare il mondo. La realtà per Nabokov va sempre messa tra virgolette e la grande arte nasce dall’arte di vedere il mondo come una potenzialità per la finzione, la fiction che è sempre poíeis, invenzione artistica, che fa dei grandi romanzi “favole supreme”, dove la magia del poeta non è disgiunta dall’ipotesi dello scienziato.
Con la consueta verve polemica, dai lontani anni cinquanta Nabokov ricorda alla nostra contemporanea “sete di realtà” che definire “vera” una storia è insultare sia l’arte che la verità. La letteratura, sostiene, non è nata il giorno in cui un ragazzino inseguito da un grande lupo grigio corse via gridando “al lupo, al lupo”, è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “al lupo, al lupo” e non aveva nessun lupo alle calcagna; la magia dell’arte stava nell’ombra di quel lupo che lui aveva volutamente inventato. Solo così la storia dei suoi inganni divenne una storia proverbiale. E qui Nabokov diventa insieme grande critico e lodatore di se stesso. Se lo scrittore contiene in sé le tre dimensioni, del narratore, del maestro e dell’incantatore, è nell’ultima che risiede la sua grandezza. Con un’ulteriore “mossa del cavallo”, Nabokov infine inverte le nozioni convenzionali dell’artista e dello scienziato: per la grande arte occorrono sia la precisione della poesia che l’intuizione della scienza. Il grande scrittore scrive le sue favole supreme su uno svolazzo di magia che è soprannaturale e surreale insieme, come il poeta di Fuoco pallido che, riflettendo sulla propria ricerca dell’assoluto fa commentare al suo autore: “Fa piacere ricordare che la differenza fra il lato comico e il lato cosmico delle cose dipende da una sibilante”.
giuliana.ferreccio@unito.it
G. Ferreccio ha insegnato letteratura inglese all’Università di Torino