di Paolo Bertinetti
dal numero di ottobre 2018
Vidiadhar Surajprasad Naipaul è stato uno dei maggiori scrittori del Novecento, un autore padrone di un linguaggio di cristallina limpidezza che si accompagna a una suprema purezza stilistica e a una raffinata padronanza della lingua inglese (virtù che ormai è appannaggio quasi soltanto degli scrittori non inglesi, come Rushdie, come Coetzee e come, per l’appunto, Naipaul).
Se così spesso si è polemizzato con le posizioni da lui espresse è perché tali posizioni non venivano avanzate da un giornalista, o da un popolare maître à penser, o da un qualche polemico saggista, bensì da un autore di indiscussa grandezza, da uno scrittore che, come è proprio dei grandi scrittori, sapeva cogliere assai meglio degli “esperti” l’essenza profonda della realtà del proprio tempo, le sue contraddizioni, le sue trasformazioni, i suoi fallimenti. Naipaul è stato anche un formidabile giornalista, autore di reportage di straordinario interesse che spesso affrontavano i temi e i problemi che stavano alla base della sua opera narrativa e che rafforzavano la sua fama di scrittore politicamente scorretto. Certe sue pubbliche dichiarazioni, come certi articoli e interventi a convegni, agli occhi dei più fugavano poi ogni dubbio sulla sua scorrettezza. L’accusa principale, grosso modo, era quella di avere rinnegato la sua condizione originaria di suddito dell’Impero britannico e di avere abbracciato se non la causa almeno i valori della ex-potenza coloniale.
Naipaul, etnicamente indiano e di casta braminica, era nato nell’isola caraibica di Trinidad, che aveva lasciato a 17 anni per andare a studiare a Oxford con l’intenzione di “diventare scrittore”. Lì si era laureato e in Inghilterra aveva deciso di rimanere. Si era “fatto inglese”, rifiutandosi di sentirsi parte del mondo meschino, provinciale, soffocante (questo era il suo drastico giudizio) della terra e dell’ambiente sociale dove era cresciuto. Il libro autobiografico L’enigma dell’arrivo (Mondadori, 1988, uno dei suoi maggiori capolavori, insieme alla raccolta di racconti Miguel Street, Mondadori, 1991e ai romanzi Una casa per Mr Biswas, Mondadori, 1964 poi Adelphi, 2005 e ad Alla curva del fiume, Rizzoli, 1982, poi Adelphi, 2015 – “L’Indice” n.3 anno XXXIII -, parziale rivisitazione di Cuore di tenebra di Conrad) spiega assai bene quanto fosse stato difficile, a tratti doloroso, riuscire a “farsi inglese”: L’enigma è la testimonianza di un itinerario di sradicamento e di scoperta intellettuale, di rifiuti, di delusioni, ma anche di conferme che illumina la natura e le contraddizioni della scelta di una cultura “altra”.
Alla comunità indiana Naipaul rimproverava di riprodurre a Trinidad le stesse regole soffocanti e classiste della lontana madrepatria. Alla comunità maggioritaria di origine africana, che esprimeva i governanti del dopo indipendenza, rimproverava tanto il pregiudizio razziale quanto l’incapacità di mantenere le promesse di creare una nuova e libera identità caraibica insieme alle altre isole del Mar delle Antille (i cui governi del dopo indipendenza, all’inizio altrettanto ricchi di promesse, si erano poi rivelati altrettanto dediti a gestire il loro potere e i loro interessi particolari). Non era nata una confederazione caraibica, ma una costellazione di piccoli potentati illiberali. Naipaul aveva la colpa di dirlo, e di lasciar capire che questo valeva anche per quasi tutte le ex-colonie britanniche a cui era stata concessa l’indipendenza.
E valeva anche per l’India (seppure con modalità diverse), come spiegava in Una civiltà ferita: l’India (Adelphi, 1977), l’amaro ritratto di un paese prigioniero delle sue più o meno idealizzate “tradizioni” e della sua feroce struttura sociale per caste. In un successivo reportage, India: un milione di rivolte (Mondadori, 1990), si mostrò meno duro nei confronti del mondo indiano (senza nulla concedere alla stupidaggine secondo la quale l’India sarebbe la più grande democrazia del mondo), anche perché la contraddittoria politica di Rajiv Gandhi gli aveva comunque lasciato intravedere la possibilità di positivi cambiamenti.
Imbarazzo, molti silenzi e qualche polemica suscitarono i suoi due lavori sul mondo islamico, Tra i credenti: un viaggio nell’Islam (Rizzoli, 1983) e Fedeli a oltranza: un viaggio tra i popoli convertiti all’Islam (Adelphi, 2001). Questo secondo, in particolare, uscito nel pieno delle guerre civili e della dissoluzione della Jugoslavia, sembrava inopportuno per l’accento sulla costrizione alla conversione all’Islam. Anche a questo proposito a molti Naipaul sembrò politicamente scorretto. Forse a molti adesso non sembrerà più tale: c’è troppa verità nella sua scorrettezza.
Non suscitò accuse di scorrettezza il suo libro di reportage intitolato Nel Sud (Mondadori, 1989), acutissimo libro di viaggio nel profondo Sud degli USA che faceva capire benissimo la realtà degli Stati Uniti e del suo zoccolo duro conservatore (e religiosissimo). I conservatori non si preoccupano infatti del “politicamente scorretto”: scorretti spesso lo sono e non si preoccupano di esserlo. Preoccupante è invece che da parte di chi conservatore non è venga definito scorretto ciò che semplicemente è scomodo e difficile da accettare.
paolo.bertinetti@unito.it
P Bertinetti insegna letteratura inglese all’Università di Torino