L’autodistruzione di una società
recensione di Andrea Bianchi
dal numero di febbraio 2015
Michel Houellebecq
SOTTOMISSIONE
ed. orig. 2014, trad. dal francese di Vincenzo Vega, pp. 256. € 17,50
Bompiani, Milano 2015
Dopo aver letto À rebours, Barbey D’Aurevilly scrisse che al suo autore restava solo da scegliere fra il suicidio e la conversione. Joris-Karl Huysmans, che si convertì in effetti al cattolicesimo nel 1892, è l’unico oggetto di studi di François, il docente universitario protagonista dell’ultimo romanzo di Houellebecq, Sottomissione, e al contempo una sorta di suo doppio spirituale, a lui legato da una complessa rete di corrispondenze. Ed è l’intera civiltà occidentale, per l’autore, a trovarsi di fronte a un dilemma simile. Ma si tratta di una reale alternativa?
La “sottomissione” del titolo si riferisce alla democratica presa del potere, nella Francia del 2022, a colmare un vuoto insieme ideale e politico, da parte di un partito islamico moderato e alla relativa conversione del protagonista all’islam (che in arabo significa appunto “sottomissione” o “abbandono totale di sé a Dio”). Ne consegue un pacifico, graduale, ma inesorabile ritorno a un modello sociale patriarcale e poligamico, la fine della parità fra i sessi, la progressiva islamizzazione dell’insegnamento, il volontario esodo degli ebrei francesi. La rinuncia, insomma, a tutti i valori ereditati dai Lumi, quelli che in Francia si chiamano valeurs républicaines, e quindi l’autodistruzione di una civiltà che, anomica, abulica, vuota di senso come il protagonista, accetta di rinunciare, con indifferenza e quasi con voluttà, a tutto ciò che ne costituisce la specificità dalla fine del XVIII secolo. Una società che sembra ignorare i suoi valori fondanti e non è per questo in grado di difenderli.
Nessuna islamofobia, nonostante le semplificazioni mediatiche, nel romanzo; nessuna descrizione di una religione violenta, che decapita o lapida gli infedeli; l’islam moderato e sornione che si afferma alla fine (e di cui Houllebecq sottolinea giustamente le affinità ideologiche con la destra tradizionalista europea, che lo combatte, ma ne condivide l’avversione ai valori della modernità) prende, per così dire, per stanchezza un Occidente disilluso ed estenuato, come fece il cristianesimo alla fine del mondo antico. Lo sguardo dell’io narrante (e dell’autore) su quanto accade è quello proprio di un perfetto rappresentante di tale civiltà declinante: indifferente, passivo, per nulla ostile, anzi, sostanzialmente lieto di aderire a un credo e di sbarazzarsi della libertà vuota e senza fini che era la sua; al massimo sorpreso che la storia sia ancora in movimento (assuefatto com’è alla stagnazione della sua vita e della società in cui è cresciuto) e incapace di concepire altro modo per accedervi che non sia, appunto, quello di una “sottomissione”.
La libertà stanca, specie quella vacua del consumismo moderno, e il romanzo si chiude con la certezza di François che non avrebbe avuto, dopo la sua conversione, “niente da rimpiangere”. A essere sottoposto a dura critica non è certo l’islam, ma la società nata dalla rivoluzione: priva di trascendenza, incapace di darsi un ubi consistam e di autoperpetuarsi, a causa della dissoluzione del modello familiare tradizionale (vera ossessione dell’autore), è, secondo Houellebecq, destinata a soccombere al confronto con modelli sociali più organici e a rimanere una parentesi di breve durata nella storia dell’umanità. Chi conosce Houellebecq non si stupirà troppo: l’interesse principale di tutta la sua opera è costituito dallo sguardo, gelido e impietoso fino alla morbosità, che porta sulla società occidentale, atomizzata e consumistica, individualistica e rassegnata, sul suo nichilismo, la solitudine disperata dei suoi membri, la burocrazia soffocante e impersonale, il ruolo consolatorio del sesso, descritto spesso sotto una luce assai squallida (e la voluttà nel ritrarre ciò che del mondo moderno lo disgusta è molto affine a quella di Huysmans).
In Sottomissione, è particolarmente spietata la descrizione dell’ambiente accademico e culturale: quello che dovrebbe essere il baluardo e lo strumento di diffusione dei valori democratici è rappresentato come un universo angusto, autoreferenziale, animato solo da piccoli interessi e beghe meschine. La riflessione sul nichilismo (qui particolarmente presente, anche attraverso il confronto con Nietzsche) e il lucido disincanto possono ricordare i romanzi francesi della fine degli anni trenta: l’antiumanesimo dichiarato di François non sembra così distante da quello di Roquentin nella Nausea. Ma i personaggi di Houellebecq non hanno nessuna velleità di critica filosofica, nessuna consolazione dall’arte né la disperata ma sensualissima vitalità di un Meursault: non conoscono la rivolta, ma solo un’apatica rassegnazione. Lo stile freddo e anodino tipico di Houellebecq trova, in Sottomissione, una disinvoltura e un ritmo che catturano il lettore, anche se a volte rischiano la facilità e un certo manierismo. Soprattutto, sul piano narrativo, all’interesse e alla densità delle parti che hanno al centro l’interiorità e la visione del mondo del protagonista (particolarmente riuscite quelle su Huysmans, sui poeti a lui contemporanei e sulla civiltà cristiana medievale) si contrappone la debolezza di quelle propriamente romanzesche, funzionali al procedere degli eventi, ma attraverso personaggi di scarsa consistenza e dialoghi spesso troppo didascalici, che ruotano sempre, con diverse sfumature, attorno alle stesse idee di fondo sul tramonto dell’Occidente o tratteggiano scenari internazionali un po’ semplicistici.
Insomma, se Houellebecq è ampiamente in grado di proporci uno sguardo originale sul reale, lo è meno nel fornircene un’adeguata elaborazione intellettuale; e il genere del conte philosophique, o del racconto di idee in forma di apologo, alla France o alla Sciascia, cui sembra a volte volersi rifare, richiederebbe un brio e una curiosità intellettuale che la stessa profondità della sua desolazione, pur concedendogli alcuni passaggi amaramente sarcastici di indubbia efficacia, gli preclude. È però notevole la capacità di rendere verosimile un avvenire il cui prodursi è pur descritto in modo così meccanico e piatto; questo perché è efficace il ritratto del nostro stato psicologico presente e quindi del misto di stupore e indifferenza con cui l’individuo medio prenderebbe atto, in una situazione affine a quella del protagonista, che la società in cui vive, che è abituato a considerare tanto desolante quanto immutabile, il solo orizzonte possibile, è comunque ancora sottoposta al divenire storico e può conoscere dei mutamenti epocali paragonabili a quelli attraversati dalle civiltà del passato. Chi non è disposto a gettare così a cuor leggero le conquiste illuministiche fra i rifiuti della storia non potrà che sperare che la nostra civiltà abbia di fronte altre forme di cambiamento per uscire dalla sua crisi attuale. Ma, come già altri grandi reazionari, Houellebecq ci mette davanti uno specchio della società in cui viviamo e del nostro paesaggio mentale e culturale da cui sarebbe un errore distogliere lo sguardo.
andrea.bianchi@istruzione.it
A Bianchi è insegnante e traduttore