Un testamento spirituale
recensione di Silvia Annavini
Marilynne Robinson
GILEAD
ed. orig. 2004, trad. di Eva Kampmann
pp. 258, € 17.50
Einaudi, Torino 2008
La vita bussa alla porta del reverendo John Ames ritardataria e inaspettata. Una donna si ripara in chiesa durante una predica donandogli l’amore, una breve seconda giovinezza e un figlio, costringendo così l’uomo di fede a confrontarsi in modi inattesi con l’umano e con il divino. Marilynne Robinson pubblica per la prima volta Gilead nel 2004 e vince il premio Puitzer nel 2005. L’Italia ha atteso diversi anni per pubblicarlo ma la traduzione di Eva Kampmann restituisce minuziosamente l’atmosfera linguistica dell’originale. Siamo nel 1956 a Gilead, una sperduta cittadina dell’Iowa. Ames ha ottantanove anni, è malato e decide di iniziare a scrivere al figlio – che di anni ne ha solo sette – il proprio testamento spirituale. La narrazione ha ovviamente una prospettiva monofocale: abbiamo soltanto gli occhi ancora pieni di vita del reverendo su ciò che lo circonda ma questa visione, apparentemente univoca, viene movimentata dall’ermeneutica biblica intesa come strumento e metodo d’analisi (consapevolmente tutt’altro che infallibile) sul mondo. Tema centrale, infatti, è la vecchiaia intesa come spazio interpretativo. Ciò che è «vecchio» è qui sinonimo di confortevole, abitudinario, rassicurante. Di conseguenza, anche la narrazione dei ricordi che comprendono le figure del padre e del nonno, anch’essi ministri religiosi, appaiono sempre in età avanzata intesa come esemplare nella rappresentazione di diverse prospettive della vita religiosa da quella politica a quella spirituale fino a quella materiale. La figura del nonno guidato dal suo unico occhio e da un’energia ascetica indomabile riesce a non cadere in una stilizzazione da antico testamento traducendosi, invece, in un’importante immagine storica. I racconti che lo legano ai movimenti per l’abolizione della schiavitù negli stati del Sud alla fine dell’ ‘800 ne fanno piuttosto emblema e ritratto di una generazione che decide di non cedere ai limiti della propria vecchiaia combattendo strenuamente.
Il più anziano reverendo Ames finirà i propri giorni in una sorta di pellegrinaggio nel Kansas dei moti indipendentisti di John Brown del quale appare come una sorta di alter ego. Il romanzo è in realtà pieno di personaggi che si specchiano e si riflettono come nel caso di Boughton amico, confidente e omologo presbiteriano di Ames, immagine di una strenua fiducia nella speranza religiosa. Un altro contrappunto è racchiuso nel controverso personaggio di Jack Boughton, figlio del reverendo Boughton e figlioccio del reverendo Ames. Tornato dopo vent’anni di apparente disonorevole assenza svelerà in realtà una triste storia storia d’amore lacerata dalle leggi segregazioniste. Ciò che appare più interessante in Gilead è l’intrecciarsi della Storia intesa come attesa e contraddizione e, contemporaneamente, una riflessione profondissima sull’esperienza della paternità affrontata in tutti gli spettri possibili. Interessante a tal proposito come in realtà la figura stessa del proprio padre risulti sospesa nel giudizio e nella definizione dalle parole del narratore morente proprio nel suo ultimo e strenuo atto di paternità. Accostato ad alcuni classici della letteratura americana a partire da Flannery O’ Connor mentre fra le righe di Marilynne Robinson sembrano risuonare allo stesso tempo i versi di Leonard Cohen e Johnny Cash.
silviaannavini@gmail.com
S. Annavini è comparatista e si occupa principalmente di letteratura portoghese e angolofona
L’arrivo della grazia: sul numero di dicembre 2015 Carla Ammannati recensisce «Lila», il più recente romanzo di Marilynne Robinson.