Kent Haruf – Vincoli

La giustizia impossibile

recensione di Alessandra Penna

Kent Haruf
VINCOLI
Alle origini di Holt
pp. 264, € 18
NN editore, Milano 2018

“Tre negozi, la pensione, il bar, il cimitero” e quindici o venti case: questa è Holt quando Roy Goodnough e sua moglie Ada vi si trasferiscono, alla fine del 1800, con l’illusione di trovare qualcosa di molto diverso dall’Iowa. La terra promessa è invece brulla e piatta. Ad Ada quel paesaggio fa paura: fuggirebbe, se Roy non fosse così determinato a restare. Ada è la prima e più fragile vittima in questo romanzo: resta legata al marito e a quella terra inospitale e si lascia morire. Decidendo così delle sorti dei figli, Lyman e soprattutto Edith, che, appena diciasettenne, si trova a diventare, per volontà del padre, “la mamma”.

Da qui in avanti, Haruf narra quanto devastanti possano essere i legami familiari, quanta insensata sofferenza possano causare, con quanta ineluttabile rassegnazione si accetti di non riuscire a sottrarvisi. Come ha fatto con la moglie, così Roy esercita la stessa violenza sui figli, costretti a una vita di privazione e monotonia. Ma il disprezzo profondo per il genitore tiranno non si tramuta mai in uno strappo definitivo, perché la rottura del legame implica un senso di colpa non sopportabile. Haruf ci ha abituato alle famiglie disfunzionali. Colpisce, però, in questa rappresentazione dell’“orrore” familiare, lo stile piano, pulito, che non ha bisogno di ricorrere a metafore ardite per raccontare la tristezza e la disperazione, riuscendo ugualmente a immettere il lettore in un universo carico di tensione. La tensione avvolge la vita di Edith e Lyman, scandita dai tempi del raccolto, della pulizia della casa, della mungitura delle vacche. Accompagna il lettore durante l’incidente fatale a Roy, la cui rabbia viene quasi punita dalla natura. Si esprime nella disperazione di Edith. “…era completamente sola [..]. Non era sola per un pomeriggio o per un mese, lo era un anno dopo l’altro, costantemente, e non aveva alcun motivo di credere che le cose sarebbero mai cambiate”. Poche righe, secche, perché il lettore senta il peso inesorabile di quella assoluta assenza di cambiamento che può indurre alla follia. Relegata a un contesto familiare di pura crudeltà, di cui è estremamente consapevole, Edith emerge come uno di quei personaggi archetipici di Haruf: incarna il senso della giustizia (offesa e non ripristinabile, perché certe cose sono impossibili da raddrizzare e tanto vale saperlo), di abnegazione incondizionata.

Alla chiamata costante del dovere, Edith risponde sempre sì: e a volte senza un perché, quasi il dovere fosse un dio superiore a cui non è contemplabile sottrarsi. Eppure, nonostante questa incapacità di spezzare le catene, Edith è una figura esemplare, verso la quale la comprensione del lettore è assoluta. Perché non è solo la persona di cui prendersi cura e da difendere, ma colei che difende e che si prende cura, non solo la donna che ha bisogno di ricevere del bene, ma che fa continuamente del bene. Come certi personaggi di Haruf (mi vengono in mente su tutti i McPherson) è giusta e sempre fedele a se stessa, non tradisce la propria coerenza. Una mano tesa – che soccorre sempre chi ha bisogno, come nei romanzi successivi – arriva a Edith dall’esterno, da una famiglia che vive a poca distanza da casa sua. Ma in questo primo romanzo – che contiene tutto quello che già conosciamo dell’universo narrativo di Haruf – quella mano è ancora soltanto la promessa di cambiamento e di felicità. Passeranno anni prima che quella felicità, solo sperata, diventi possibile per il tramite dell’Altro. Quella del lettore, invece, è sicura.

alepenna@yahoo.com

A Penna è editor