Epopea fiammante
di Orazio Labbate
dallo Speciale Estate 2017
Joyce Carol Oates
IL GIARDINO DELLE DELIZIE
trad. dall’inglese di Francesca Crescentini
pp. 520, € 21
Il Saggiatore, Milano 2017
disponibile su IBS
Il giardino delle delizie è il primo volume dell’Epopea americana di J. C. Oates. Libro dai brillanti toni epici, esso è dotato di un’impalcatura maestosa in cui il tempo passato e quello presente scandiscono la storia. Per dare avvio alla sua grande narrazione, Oates catapulta immediatamente il lettore dentro le dinamiche familiari dei Walpole nello Stato dell’Arkansas, la terra delle piantagioni, del caporalato disgraziato, dell’aridità che impera attorno ai luoghi e alle case come se il caldo fosse lo spettro vibrante dei sogni pronti a spezzarsi: siamo negli anni cinquanta e sessanta nel quadro di un’America proletaria. Tuttavia, si badi, la narrazione non si arresta ai confini di un solo scenario, si muoverà splendidamente (notevoli sono le descrizioni puntigliose, dense e metaforiche dei paesaggi) verso e all’interno d’altri Stati: Florida, South Carolina, New York.
Carleton, il giovane capofamiglia, è la prima voce: la prima parte del volume è infatti dedicata a lui. Carleton è dunque – tentando di interpretare le intenzioni letterarie di J.C. Oates – lo scrittore, cioè l’eziologia narrativa personificata che scatenerà, con i suoi comportamenti istintivi, le vite vicine a lui e quindi l’azione epica del libro. Conducendo una vita sregolata e nomade in compagnia della sua folta famiglia, svolgendo nel frattempo il lavoro logorante del bracciante, questi intrattiene un rapporto privilegiato con uno dei suoi figli, la piccola e rivoltosa Clara. L’unicità del legame è però fremente, e disastroso presagio di imminente rottura fra i due. Uno schiaffo alla ragazzina significherà il distacco, la fuga definitiva di Clara dal miserando focolare domestico. Quando Carleton comprende, all’indomani dell’evasione di Clara, che la figlia è davvero andata via, il suo smarrimento (la solitudine come conseguenza degli errori, la perdita del rapporto, lo sconforto) diventa il colossale motore spirituale in grado di infiammare la lingua e la storia. Superbe sono le pagine – che ricordano la migliore visionarietà cattolica della O’Connor, ora invece più sbrigliata e meno ingessata – in cui il fato di Carleton, partito alla ricerca della figlia, si compie. In quel di Savannah, Carleton penetra esausto e rabbioso dentro una chiesa, dove intavola un meraviglioso dialogo indiavolato con se stesso e con Dio.
Dopo la prima parte, le successive “Lowry” e “Swan”, tratteranno invece della nuova vita di Clara durante e dopo la sua fuga. La ragazzina subirà una repentina maturità, sia per via dell’amore (un sentimento dapprima acerbo, poi consapevole) verso Lowry, l’uomo misterioso che l’ha strappata via dal passato; sia per via del figlio che partorirà, Swan. Ora il libro, abbandonando la potenza descrittiva e avventurosa della prima parte, cambia registro: temi, scenografie e lingua sono più ragionati, solo talvolta animati dalle emozioni dei personaggi e non dalle deduzioni immaginifiche evocate dall’ambiente circostante.
Pagina dopo pagina si dipanano dunque il racconto di una storia d’amore complessa, la sgretolazione dell’American Dream e una visione della fede quale rifugio compromesso a causa delle difficoltà del vivere, il tutto con certo una marcata dimensione sociale ma in cui l’autrice dimostra l’eclettismo sorprendente di una grande scrittrice che entra nei generi con magistrale facilità. Joyce Carol Oates consegna con Il giardino delle delizie l’avvio di una nuova e importante epica americana, in cui la lingua e la storia – qui rivediamo luminoso lo spettro di John Steinbeck – si rivelano capaci di inventarsi ora facendosi evocative, ora invece mostrandosi fresche e improntate alle suggestioni della realtà: “Trovarsi all’aperto rendeva tutto diverso – leggermente surreale. Clara profumava di sole, di mais bruciato dal sole e di grano, e i suoi occhi si muovevano involontariamente verso il cielo dove il futuro si dipanava delicatamente per sempre, senza conoscere confini. Là, tutto poteva succedere: dovevi semplicemente essere vivo”.
O. Labbate è scrittore