Esistenze ai margini della bomba
recensione di Matteo Fontanone
dal numero di ottobre 2017
Jonathan Lee
IL TUFFO
ed. orig. 2015, trad. dall’inglese di Sara Reggiani
pp. 446, € 18,50
Sur, Roma 2017
Nelle prime ore del 12 ottobre 1984 il Grand hotel di Brighton, dove si stava celebrando il congresso del partito conservatore inglese allora guidato da Margaret Thatcher, viene sventrato da una bomba dell’Ira, in quello che a posteriori fu definito come l’attentato più audace mai compiuto dall’organizzazione paramilitare nordirlandese. La Iron Lady e i suoi ministri rimangono incolumi, ma lo scoppio uccide cinque ospiti che stavano partecipando alla serata di gala.
Il romanzo di Jonathan Lee, già dal titolo, nasce con l’intento di mettere in luce i prodromi della strage e non le sue conseguenze, “perché a volte il prima è più interessante del dopo, no? Il tragitto verso l’impatto finale. Che cosa c’è di bello in un tuffo? Di sicuro non gli schizzi, o sbaglio?”. Sulla base dell’analogia tuffo-bomba, l’autore racconta le esistenze di tre personaggi nei mesi precedenti alla detonazione: da una parte Moose e Freya, il vice-direttore del Grand hotel alle prese con i preparativi del grande evento e la sua irrequieta figlia che si rifiuta di iscriversi all’università; dall’altra Dan, un giovane tuttofare di Belfast che, perso il padre da bambino, trova un posto nel mondo come bombarolo dell’Ira e sarà incaricato dal suo responsabile di piazzare l’ordigno al “Grand” cinque settimane prima dell’arrivo del primo ministro. È una scelta programmatica, questa di esplorare la riparata quotidianità di chi sta per essere travolto, che però, sulla lunga distanza, rischia di affossare Jonathan Lee in una dimensione fin troppo interlocutoria.
La quiete che prepara la tempesta
Il tuffo, infatti, si organizza secondo una narrazione a montaggio alternato che lentamente converge intorno all’unico e concreto apice del libro, l’esplosione della bomba. Il problema sta nel ritmo: le sezioni riguardanti la vicenda di Dan e i suoi rapporti con l’Ira – ma è ovvio, in questi casi si ha gioco facile – riescono a trascinare il lettore tra le maglie della storia, come d’altronde larga parte del materiale letterario che guarda al passato più recente. È una narrazione dall’andamento riflessivo, che privilegia le piccole cose e le piccole battaglie quotidiane, che cerca di dare senso agli accadimenti della storia attraverso l’esaltazione di alcune individualità poco attese, storie minori. Nonostante il romanzo patisca alcuni stalli di troppo, dalla parabola di ognuno dei tre protagonisti si possono estrarre senza fatica uno o più episodi che mettono in luce le qualità narrative di Jonathan Lee: per Dan è la gestione della vecchia madre sulla via dell’ammattimento, per Freya è l’avventura post-adolescenziale con John il surfista, per Moose, che in assoluto sembra la figura più brillante e meglio definita, una sorta di piccolo epigono di Levov lo Svedese, l’improvviso attacco di cuore e la relativa consapevolezza della vecchiaia ormai alle porte. La sensibilità dell’autore antepone all’epica dei grandi avvenimenti gli istanti silenziosi ma decisivi, le esistenze ricamate ai margini della bomba, la quiete di tutti i giorni che anticipa il fragore e la polvere dei calcinacci…
matteo.fontanone@gmail.com
M Fontanone è critico letterario