Verso l’esilio dalla vita
recensione di Mario Marchetti
Horacio Quiroga
Aldilà
pp. 196, € 20
De Piante editore, Busto Arsizio 2023
Aldilà è l’ultima raccolta di racconti pubblicata in vita dal cuentista uruguagio, il cui valore si sta finalmente affermando anche in Italia come attesta la recente attenzione dell’editoria. Era il 1935. Morirà suicida, poco più di un anno dopo, all’inizio del 1937 affetto da una patologia letale in un ospedale di Buenos Aires. Nel libro, uscito da De Piante, aleggia il fantasma della morte; la selva, gli animali, Misiones, la fascinosa zona di acque, foreste e ruderi gesuitici, al confine tra Argentina, Paraguay e Brasile, dove Quiroga visse pionieristicamente svariati anni appaiono, se vi appaiono, in filigrana. Quiroga non è più il dandy di belle speranze di Montevideo e di Buenos Aires, né il giovane artista sperso nella Parigi di inizio secolo, né soprattutto il civile selvaggio della foresta pluviale proliferante attorno al Paranà. I suoi meravigliosi ofidi la cui bellezza e intelligenza esalta nelle storie di Anaconda, il suo giocoso coati sono sprofondati nel passato. Resta il suo disincanto nei confronti dell’uomo di cui diceva “Uomo e Devastazione sono da sempre sinonimi per il Popolo degli Animali”, “Colui che tutto distrugge! Che taglia e che sporca!”, “L’uomo è stato e sarà sempre il più crudele nemico della selva”: a nulla vale contro la sua volontà di potenza la congiura organizzata da Anaconda in alleanza con le acque e i serpenti. Quiroga anticipa la consapevolezza ecologica ‒ per altro impotente ‒ dei nostri tempi: non si limita ad esaltare le verdi dimore e i sui abitanti come faceva ancora William H. Hudson, o ancor prima Humboldt, ma vede già il germe della fine di un mondo per secoli incontaminato. Nello straordinario Le mosche, la più bella variazione narrativa di Aldilà, ripresa dell’Uomo morto comparso nove anni prima negli Esiliati, Quiroga scioglie senza residui il presagio della morte imminente nel suo illimitato amore per la natura vivente. Se nella prima versione il punctum era l’assoluta casualità dell’evento della morte che colpisce l’uomo senza alcun riguardo per l’opera che sta compiendo ‒ la morte non aspetta che una storia sia conclusa ‒, qui si sofferma un poco più in là (más allá), in un intermundio, sulla soglia tra il venir meno alla vita il definitivo scivolare nella morte, qui in realtà una trasformazione. L’uomo morto non muore, si trasforma in una delle mosche verdi attratte dalla sua decomposizione. La vita continua in un’altra forma: “Dal profondo di questa espansione … posso alzarmi e volare, volare… E volo, e mi poso con le mie compagne sul tronco caduto, ai raggi di un sole che presta il suo fuoco alla nostra opera di rinnovamento vitale”.
Diventare mosca, dare un nuovo inizio alla vita: una trama interspecie. In simile mondo di mezzo si muovono per tre mesi i due innamorati di Aldilà, morti suicidi per un amore impossibile (suicidio e veleno tornano ossessivamente fino a concretizzarsi nella scelta finale di Quiroga) vivendo l’allucinazione di un idillio. Amore e morte romanticamente fusi, sperimentati in una dimensione che non è più vita e non è ancora morte. Morte che è sempre in agguato e che l’amore incondizionato dei genitori non riesce a tenere lontana dai figli: non ce la fa né l’ossessiva madre della Chiamata che pur di tenere a distanza i pericoli anticipa in vita il vuoto squallore della morte né il fiducioso padre de Il figlio che si limita a raccomandargli “Fai attenzione, piccolo” mentre si avvia alla caccia nell’assolato, calmo saturo, ambiente naturale di Misiones. Anche il cinema e Hollywood, grandi passioni di Quiroga, sembrano anticipare coi loro fotogrammi in bianco e nero una dimensione larvale della vita in un malioso intreccio: l’immagine sullo schermo nutre lo spettatore come lo sguardo dello spettatore nutre a sua volta il performer attoriale in un reciproco rapporto vampiresco. Non a caso un tassello della raccolta si intitola Il vampiro, ma naturalmente un vampiro dei tempi moderni il cui supporto è la tecnologia cinematografica, pur in un decadente scenario alla Poe. E così nel Puritano, quando il protagonista si accorge di non poter resistere alla seduzione della Lei spettrale che dallo schermo si focalizza su di lui, si spara, portando a compimento il loro destino di amore e morte. L’io diviso dello scrittore si riflette nei racconto lungo La sua assenza dove convivono due inconciliabili pezzi del sé: l’uomo pratico e l’intellettuale: chi scrive e chi si immerge nel lavoro fisico sono la medesima persona o due sue distinte proiezioni? E così il protagonista del Macchinista sente oscuramente in sé dei presagi di rottura della propria personalità, sintomi di schizofrenia, presagi forse di follia e per un po’ riesce misteriosamente a mantenere il controllo del treno, e Quiroga conclude. “Noi crediamo che il sentimento del dovere, profondamente radicato in una natura umana, sia capace di contenere per tre ore l’oceano di demenza che sta per affogarla. Ma da tale eroismo mentale la ragione non si riprende”. Negli ultimi due racconti, La bella e la bestia e Il tramonto, ci si muove sul tema dell’attrazione maschile/femminile: nella Bella e la bestia il fascino di uno scrittore agli occhi di una donna si rivela un vuoto costrutto romantico di fronte ad altre qualità, nel Tramonto, che non a caso chiude la raccolta, un maturo dongiovanni pregiatore di ragazzine (Quiroga, lo ricordiamo, si unì in matrimonio sempre a donne molto più giovani, un’allieva, prima, e un’amica della figlia, poi) si vede fagocitato da una sfrontata fanciulla in fiore: il rapporto si è invertito, e la conclusione è malinconica. È la ratifica di un fallimento: “Che strano! Ho la sensazione di non essere stata con un uomo”, esclama la fanciulla, concludendo il libro.
Tutti i fantasmi di Quiroga sembrano rincorrersi in questi racconti in cui entra con forza la vita, sono anzi veri e propri pezzi di vita pur stabilendo una distanza letteraria dalla materia da cui sono scaturiti. Il mistero della morte, la fusione con la natura, l’amore per i figli, il complesso rapporto con le giovanissime compagne, l’impegno nella scrittura e l’impegno ostinato nel lavoro costituiscono un pulviscolo di temi che danzano tra una tessera e l’altra. Catturano questi undici racconti, il cui significato testamentario è confermato dalle parole scritte all’amico Ezequiel Martínez Estrada: “Cuando consideré que había cumplido mi obra ‒ es decir que había dado de mí todo lo más fuerte ‒ comencé a ver la muerte de otro modo. Algunos dolores, inquietudes, desengaños, acentuaron esa visión. Y hoy no temo a la muerte, amigo, porque ella significa descanso”. Catturano, anche se non sempre rispettano l’ottavo imperativo del decalogo del perfetto cuentista stilato dallo stesso Quiroga: “Prendi per mano i tuoi personaggi e conducili con fermezza fino alla fine… Non ti distrarre guardando ciò che loro non possono o non si curano di guardare. Non abusare del lettore. Un racconto è un romanzo depurato di pleonasmi. Considerala una verità assoluta, benché non lo sia”. Qualche scarto non manca, d’altronde la ricetta era ossimorica, come non poteva non essere.