Basta un attimo per crollare
recensione di Matteo Fontanone
Donald Antrim
LA LUCE SMERALDO NELL’ARIA
trad. di Cristiana Mennella
pp. 168, € 18
Einaudi, Torino 2016
Il racconto come narrazione incompleta, come squarcio su un qualcosa che già c’è e che continuerà al di là del testo, come una finestra illuminata che lascia intravedere cosa succede in casa d’altri. Esiste una quantità pressoché infinita di belle similitudini con cui introdurre un discorso sulla forma breve. Il racconto, in realtà, è una branca letteraria ben codificata: ha un suo parco di regole piuttosto stringenti, un pubblico di lettori-cultori, una tradizione «apocrifa» che viaggia in parallelo a quella ufficiale del romanzo.
Mentre in Italia è stato spesso considerato produzione minore o corredo nelle bibliografie degli autori, tanto che solo negli ultimi anni si sta cercando con fatica di ricostruire un interesse intorno alla forma breve, ci sono altri luoghi in cui il racconto non ha mai smesso di riscuotere successo su larga scala. Gli Stati Uniti, per esempio. Lì il racconto è nato e ha fatto fortuna fino ai giorni nostri: Hemingway, Vonnegut, Cheever, Dubus, Carver, Foster Wallace. Una linea fortissima che tuttavia non esaurisce in se stessa le potenzialità della short story americana: la più grande tribuna, infatti, resta la sezione racconti del «New Yorker». Sulle sue colonne intere generazioni di scrittori si sono misurate – e continuano a farlo – con la narrazione breve, tanto da aver costruito nell’immaginario comune una sorta di sottogenere del racconto à la New Yorker.
Sette spaccati profondamente americani
La luce smeraldo nell’aria è una raccolta di sette racconti di Donald Antrim pubblicati, e non è un caso, sul «New Yorker» dal 1999 al 2014. Sette spaccati profondamente americani per nettezza della parola ed esaustività delle descrizioni, ma anche profondamente newyorchesi nell’allacciare la nevrosi dell’individuo alla geografia e alle abitudini cittadine. I protagonisti di Antrim sono uomini moderni con un bagaglio di angosce e drammi tutti legati alla contemporaneità. Al centro dell’opera c’è sempre la malattia mentale, che fa triangolo con l’idea di abuso e quella di crollo: chi prende tranquillanti per stare bene, chi entra ed esce dalla clinica e chi, caso estremo, ha tentato il suicidio.
Colpisce l’esattezza con cui, nell’arco dei sette racconti, Antrim riesce a isolare l’attimo del disvelamento, della crisi, del crollo di ogni difesa mentale. Può succedere all’improvviso, come all’io narrante di Un attore si prepara, un professore di teatro che tutt’a un tratto prende coscienza di quanto sia ridicolo nei suoi tentativi di sembrare giovane e del fallimento della sua rivisitazione sperimentale del Sogno shakespeariano. Oppure, come nel caso del Jim del meraviglioso Ancora Manhattan, può essere un castello di carte smontato piano per piano: e dire che tutto inizia con un pensiero gentile del protagonista, che entra in un negozio di fiori per comporre un bouquet alla moglie e provare a buttarsi alle spalle un periodo difficile.
Talvolta Antrim dà l’impressione di concepire il racconto come uno spazio vuoto in cui disseminare insidie: ogni cosa, dall’osservazione mal detta all’incontro fortuito, è in grado di far scattare il click. A turbare l’equilibrio precario dei personaggi e precipitarli nello stato di confusione, infatti, basta un commento senza peso di fronte a una vetrina, come in Lui sapeva, cronaca del pomeriggio terribile di una coppia a un passo dal crollo emotivo.
Oltre il danno, la beffa
In secondo luogo, ancora più amara perché raccontata con un’oggettività brutale che non lascia spazio al sentimentalismo, c’è la beffa, quell’istante in cui il personaggio non si dà per vinto e prova a ripartire, si riempie di false speranze, guarda al futuro con ottimismo contraffatto. Jonathan, protagonista del racconto Da quando, ne è l’emblema: invitato dalla fidanzata a una festa in appartamento, si ubriaca e non fa altro che parlare a chiunque gli capiti a tiro della ex moglie. In un momento di debolezza si allontana dalla festa e la chiama, ottenendo in risposta l’ennesimo rifiuto. Disperato, torna all’appartamento, dove, sotto gli effetti dell’alcol e gonfiato di una positività inconsistente, propone alla fidanzata che non ama di sposarlo.
Questo rifugiarsi in un vago «andrà meglio» non tiene al riparo dalla realtà spietata di cui Antrim imbeve New York. Anzi, quell’atmosfera di soffocamento che è una delle cifre della raccolta viene percepita ancora più forte se affiancata alla resistenza dei personaggi all’infelicità. In Consolazione, ad esempio, Christopher e Jennifer vivono una storia del tutto priva di prospettive: l’impasse e il senso di paralisi nel lettore non sarebbero così prepotenti se i due, invece di mettere la testa sotto la sabbia e illudersi, venissero a patti con la realtà.
Al di là di tutto questo, oltre all’acutezza di Antrim nel riflettere sui meccanismi psichici dell’uomo di New York, la singolarità della Luce smeraldo sta nella rappresentazione che il suo autore fa dell’aria, che all’improvviso assume densità, diventa materica, fisica. L’aria, forse, è la causa della malattia e dell’infelicità, il fattore che suscita quello strano senso di oppressione sui personaggi: li schiaccia, li comprime, ha un peso reale e non solo simbolico. Alla fine dell’ultimo racconto, però, sulla campagna del New Jersey smette improvvisamente di piovere e la luce ha un taglio diverso, sembra fatta di smeraldo. Per un attimo, le istanze suicide del protagonista scompaiono. L’aria non pesa più, il mondo intorno si fa più leggero. Magari è solo un’impressione aleatoria e tutto tornerà uguale a prima, magari invece è davvero un nuovo inizio. Ma si tratta pur sempre di un racconto, e ciò che sta per succedere non ci è dato saperlo.
matteo.fontanone@gmail.com / Twitter: @matteofontanone
M. Fontanone è laureando magistrale in Letteratura, Filologia e Linguistica italiana